Hartmut Dorgerloh si è collegato con noi in video, il giorno dopo l'inaugurazione virtuale dell'Humboldt Forum, il più interessante e contestato progetto tedesco degli ultimi vent'anni. Le prime mostre, causa pandemia, ci saranno a partire dal 2021. Ma in quest'intervista esclusiva per l'Italia, il direttore generale del nuovo spazio culturale e scientifico che sarà ospitato dal mastodontico Castello degli Hohenzollern, è disposto ad approfondire i temi più controversi del dibattito che ha accompagnato per vent'anni la genesi del Forum. Dalla scelta di riproporre nel cuore di Berlino il castello simbolo del militarismo prussiano e del colonialismo del Reich, a quello di ricostruirlo al posto del vecchio Palast der Republik della Germania comunista. Dalla questione del colonialismo tedesco, quasi rimosso fino ad anni recenti, alla spinosa questione delle restituzioni dei bottini depredati nelle colonie in Asia, Africa e Oceania e al rischio di uno sguardo eurocentrico e paternalistico sulle culture extraeuropee.
Dorgerloh, che idea c'è dietro il Humboldt Forum?
"Anzitutto è un progetto concettualmente inusuale. Su tre lati è una ricostruzione del vecchio castello barocco degli Hohenzollern che la Ddr aveva raso al suolo nel 1950. Sul quarto lato, venendo da est, è un edificio radicalmente moderno. Ed è stato un architetto italiano, Franco Stella, e realizzarlo. Ospiterà un centro culturale e scientifico estremamente moderno che avrà funzioni e partner e prospettive molto diverse. Siamo un forum, non un museo, nell'accezione antica del termine, insomma un posto per incontrare le persone, per vedere, ascoltare, godersi qualcosa. E in cui ci si confronta e non in cui si parla 'dì qualcosa".
Ci sono stati, riassumendo grossolanamente, tre grandi filoni di polemiche. Il primo intorno all'idea che si sia ricostruito il Castello degli Hohenzollern, che per molti resta un simbolo del militarismo prussiano e dell'imperialismo della Germania unificata dopo il 1871. Come risponde a queste critiche?
"Questo è un dibattito che facciamo ormai da decenni. Ma non dimentichiamoci che il Castello è stato anche teatro di due rivoluzioni, quella del 1848 e del 1918. E' un simbolo della monarchia, è vero, ma è anche il luogo dove quella monarchia è finita. Già nella Repubblica di Weimar era diventato un luogo di scienza e cultura. Insomma, ha avuto una lunga e complessa storia. E la stessa cosa vale per il Palast der Republik".
L'edificio che ospitava il Palast der Republik della Germania est, ossia il Parlamento del regime comunista, dove si tenevano anche i congressi del partito, è stato a sua volta demolito per fare spazio al Castello.
"Sì. E dunque, per due volte, un edificio molto importante è stato buttato giù. Ogni volta per dimostrare che quella storia era finita. E ogni volta, la memoria di quei luoghi abbattuti è sopravvissuta prepotentemente".
C'è chi ha sostenuto che quell'edificio non fosse solo il simbolo dell'ipocrisia e della repressione del regime comunista. Il "palazzo delle lampade di Honecker", come lo chiamavano i berlinesi, per molti era anche luogo di ritrovo, c'erano manifestazioni culturali, ci si andava persino a mangiare. Col senno di poi: è stato un errore buttarlo giù? Lei è cresciuto nella DDR.
"E' vero, era un luogo di ritrovo – io ho studiato proprio di fronte. Ma era anche un luogo simbolo della dittatura, e nella mostra lo ricordiamo. Era anche una vetrina di come il regime si voleva mostrare. E quindi abbiamo deciso di ricordare in una delle esposizioni le telecamere di sorveglianza della Stasi (i famigerati servizi segreti della DDR, ndr) o l'urna del voto del 18 marzo del 1990, quando la DDR indisse le prime elezioni libere della sua storia, dopo la caduta del Muro. Il Palast der Republik non è stato solo il luogo del famoso concerto di Udo Lindenberg, ma anche dei congressi del partito comunista. Però è vero anche che oggi la proposta di buttarlo giù del tutto non avrebbe trovato una maggioranza parlamentare: oggi avremmo probabilmente scelto una soluzione ibrida, non la demolizione. Ma intorno all'anno Duemila, Berlino era appena diventata la capitale e c'era il desiderio forte di qualcosa di nuovo".
La decisione di buttare giù il Palast der Republik e di ricostruire il Castello venne presa infatti dal Bundestag nel 2002.
"Esatto, ed è un caso rarissimo che il Parlamento decida su un progetto architettonico. Ma ne decise anche la missione e che le collezioni extra europee avrebbero assunto un ruolo centrale. Oggi, tanto per far capire com'è cambiato il dibattito, non direi neanche più "extra europee". Già questo è un segno di quanto la globalizzazione abbia cambiato la percezione del mondo. All'inizio, il Forum era nato con l'idea di completare l'Isola dei musei, di aggiungere alle culture antiche ed europee quelle asiatiche, africane e americane. Oggi quella discussione si è tramutata in una discussione su come considerare l'eredità delle culture del sud del mondo. Questo è un aspetto importante. E credo sia anche importante mostrare queste diversità, con tutte le loro contraddizioni. Non è un compito semplice. Ma noi ci auguriamo che un luogo del genere, che architettonicamente guarda all'indietro, possa essere, concettualmente, un luogo del futuro".
Però da vent'anni a questa parte è cambiato anche molto il dibattito sul colonialismo. Ed è sparita l'ipocrisia su un presunto colonialismo "buono" tedesco e italiano, se paragonato a quello dei belgi, dei francesi o degli inglesi. Sono stati i tedeschi, in Namibia, a compiere all'inizio del Novecento il primo genocidio della storia contro gli Herero e i Nama. Persino a concepire dei proto-campi di concentramento.
"Ha ragione. E uno dei libri che mi hanno colpito di più, ultimamente, è il romanzo di Francesca Melandri, "Sangue giusto". E' un grande esempio come in Italia, così come in Germania, il dibattito sulla storia coloniale sia ripartito soltanto di recente nella direzione giusta. Ed è vero che entrambi i Paesi hanno fatto a lungo i conti con i propri fascismi lasciando nell'ombra le responsabilità mostruose del colonialismo. Anche i movimenti migratori degli ultimi decenni ci hanno mostrato che siamo molto più legati a quella storia di quanto non si fosse ammesso fino a poco tempo fa. E il Forum vuol essere un luogo deputato anche alle discussioni su quel passato di feroci repressioni".
Quindi il progetto è cambiato nel corso di questi anni a causa delle polemiche e delle discussioni pubbliche sul colonialismo?
"Il piano architettonico è quello originario, del 2008. Ma è cambiata moltissimo l'idea di cosa mostrare e come mostrarlo. Abbiamo molti più spazi liberi rispetto ai piani originari. E i principi saranno due, per riempire quegli spazi: "non parlate di noi senza di noi". Vogliamo discutere con i colleghi indiani, namibiani, tansaniani, eccetera, dell'eredità culturale del colonialismo. L'altra grande questione è: cosa significa per noi, oggi, il colonialismo? In Africa, la generazione dei più giovani non ha più avuto un'esperienza diretta del colonialismo ma ne subisce ancora le conseguenze economiche, politiche, sociali. E quindi è importante parlare con loro di tutto questo. E' nel dialogo con le comunità di tutto il mondo stiamo preparando le mostre dell'anno prossimo. Io ho imparato molto in questi due anni e mezzo in cui ho assunto il mio ruolo attuale, spero che riusciremo a trasmettere anche ai visitatori tante scoperte fatte in questo dialogo con le comunità. Per farle un esempio. Il ruolo dell'individuo, in Europa, è stato esaltato dall'Illumimismo. Ma non è l'unico modello al mondo. Ci sono comunità in Indonesia che non conoscono il pronome 'io'. Nello spirito di Wilhelm von Humboldt, anche la lingua sarà un mezzo per avvicinarsi a culture diverse dalla nostra".
La curatrice Mahret Ifeoma Kupka sostiene che il Forum sia ancora un progetto eurocentrico e paternalistico, che considera altro da sé le culture extra europee. Come se non ci fossero state le migrazioni, le diaspore. Lo ritiene un giudizio ingiusto allora?
"Sì penso che non sia un giudizio aggiornato. Un esempio: la nostra orchestra riunisce musicisti di tutto il mondo. Non vogliamo fare il carnevale delle culture: svilupperanno una musica nuova, partendo da esperienze, tonalità e musicalità diversissime. Anche la nostra squadra riflette molto i cambiamenti di Berlino. Insomma, il nostro approccio è molto diverso, ora."
Un terzo filone di polemiche riguarda le restituzioni. Molti Paesi reclamano opere d'arte dalle collezioni che ospiterete che sono state saccheggiate durante il colonialismo. Di recente la Nigeria ha chiesto indietro i Bronzi di Benin.
"Sì, i Bronzi di Benin sono diventati uno dei principali simboli di queste battaglie. Ma è stato già detto pubblicamente che ci saranno delle restituzioni. Per me un esempio positivo è il grande progetto sulla Tanzania. Alcuni oggetti depredati dai tedeschi dopo la repressione brutale della rivolta dei Maji Maji in Tanzania, saranno esposti qui al Forum e saranno portati poi a Dar-Es-Salam, dove resteranno alla Tanzania. Ma voglio anche sottolineare che per come è concepito il museo saremo sempre interessati a prestiti di collezioni di altri continenti del mondo".
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