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Covid: perché sono calati i casi di influenza

CHE fine ha fatto l’influenza? Dopo la prima ondata di Covid-19 gli epidemiologi più accorti avevano messo in guardia dal possibile tracollo invernale del sistema sanitario dovuto alla somma dei casi della prevedibile seconda ondata con il virus influenzale. Una previsione che nelle Regioni più lungimiranti si è tradotta nell’acquisto preventivo di numerose dosi di antinfluenzale.

Ora che ci stiamo lentamente addentrando nella stagione più fredda, l’influenza sembra essere la grande assente e la speranza è che rimanga tale. Le premesse, ad osservare ciò che è accaduto nell’emisfero australe, ci sono tutte: nelle aree in cui il periodo aprile-luglio corrisponde all’inverno, Sars-Cov-2 ha di fatto cancellato dai radar l’influenza e molti dei virus ad andamento stagionale. Sparizioni che potrebbero però rappresentare un’arma a doppio taglio.

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Marta Musso


Il ruolo dei viaggi intercontinentali e dei vaccini

Andando ad osservare attentamente i dati pubblicati in uno studio del Centers for Disease Control and Prevention, in Australia, Cile e Sud Africa sono stati individuati solo 51 casi di influenza su più di 83mila test effettuati. Un numero decisamente trascurabile che secondo gli scienziati sembrerebbe essere dovuto alle norme di comportamento messe in atto per frenare la pandemia. Una spiegazione del tutto plausibile che però, secondo quanto dichiarato in un’intervista alla rivista Nature dal virologo Richard Webby del St Jude’s hospital di Memphis, non è esaustiva della scarsa circolazione.

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“Alcuni Stati del Sud America non hanno affatto controllato la pandemia eppure anche dove Covid-19 si diffondeva il virus influenzale è rimasto sotto traccia”. Ecco perché, secondo il virologo, alle norme di distanziamento e all’utilizzo delle mascherine ciò che ha giocato un ruolo fondamentale è stata la scarsa mobilità tra continenti. Ma a contribuire alla scarsa circolazione del virus antinfluenzale è stata sicuramente anche la massiccia campagna di vaccinazione. Un dato su tutti: se nel 2018 in Australia si erano vaccinate solo 3,5 milioni di persone -e nel 2019 4,5- con la pandemia si è raggiunto il numero record di 7,5 milioni su una popolazione di 25.

La situazione in Italia

Pur non essendo ancora entrati nel periodo critico della diffusione dell’influenza, nel nostro Paese -ma anche nel resto d’Europa- la situazione sembra essere paragonabile a ciò che è accaduto nell’emisfero australe. Secondi i dati settimanali forniti dall’Istituto Superiore di Sanità, al 16 dicembre l’incidenza delle sindromi simil-influenzali è stabile e sotto la soglia basale con un valore pari a 1,9 casi per mille assistiti. Un numero decisamente basso se si considera che nella scorsa stagione in questa stessa settimana il livello di incidenza era pari a 3,5 casi per mille assistiti.

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Il risvolto negativo

Ma pur essendo un bene il fatto che il virus dell’influenza non circoli -la somma con Sars-Cov-2 rappresenterebbe una catastrofe per gli ospedali- diversi esperti interpellati dalla rivista Nature pongono l’accento sui possibili risvolti negativi futuri di questa pausa dal virus influenzale. Nel breve periodo, ad esempio, la mancata stagione influenzale potrebbe condizionare pesantemente la composizione del vaccino per l’anno successivo. Prevedere i ceppi da inserire, in questo caso, sarebbe molto più complicato non potendo seguire l’andamento del virus. Sul lungo periodo invece -spiega Webby– “la mancanza di competizione tra virus nell’uomo dovuti a scarsa circolazione potrebbe portare allo sviluppo di nuove varianti di influenza suina. Se per diverse stagioni il virus influenzale circola a bassa intensità, il rischio è quello di lasciare più spazio ai virus influenzali suini”.

Spazio che potrebbe significare nuovo salto di specie nell’uomo come accaduto con la pandemia del 2009 con il virus H1N1.

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Non solo influenza

Ma i virus influenzali non sono i soli ad aver risentito della competizione con Sars-Cov-2. Guardando sempre all’emisfero australe, sono tanti i virus respiratori grandi assenti da quando è iniziata la pandemia. Tra tutti quello che più risulta -fortunatamente- sotto traccia è il virus respiratorio sinciziale (VRS), il virus causa della bronchiolite. Si calcola che in tutto il mondo sia causa del 5% dei decessi nei bambini sono i 5 anni. Secondo uno studio pubblicato in settembre dalla rivista Clinical Infectious Diseases, in Australia nel periodo invernale 2020 da poco concluso si è registrata una diminuzione del 98% nel numero di nuovi casi di infezione. C’è però un risvolto meno positivo segnalato in un articolo pubblicato da Pnas ad inizio dicembre: il crescente numero di bambini suscettibili all’infezione potrebbe provocare in futuro ondate più gravi.

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L’eccezione

Gli unici virus che invece non hanno cambiato la loro diffusione sono i Rhinovirus, un centinaio di virus causa del comune raffreddore. Sul perché non abbiano risentito ci sono diverse ipotesi: resistenza ai più comuni detergenti dovuta ad una differente composizione del rivestimento virale, una maggior resistenza sulle superfici e una forte trasmissione asintomatica potrebbero spiegare il perché della permanenza.

Ma se per i virus descritti prima la sparizione potrebbe essere associata a problemi futuri, la persistenza dei Rhinovirus potrebbe invece essere un vantaggio nella lotta a Sars-Cov-2. Da un lato diversi studi -l’ultimo in ordine di tempo è comparso su Science la scorsa settimana- suggeriscono la possibilità che un’infezione da virus del raffreddore possa in parte portare ad una parziale protezione crociata contro Sars-Cov-2; dall’altro la sua presenza potrebbe innescare la produzione di interferone -una molecola prodotta dal sistema immunitario e di fondamentale importanza per la risposta iniziale ad un’infezione virale- e dunque contrastare la nascente infezione da Sars-Cov-2. Un puzzle davvero complicato che la ricerca sta cercando di mettere in ordine.

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