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Rileggere Dickens

Dickens è uno scrittore realista. Anzi, è uno scrittore impegnato, addirittura “indignado”. Freudianamente, la sua vocazione a denunciare le ingiustizie e le offese dei poveri nasce da un trauma: ha appena dodici anni, quando il padre John viene imprigionato per debiti nella prigione della Marshalsea e la famiglia va in miseria; sì che Charles finirà a lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe, la Warren’s Blacking Warehouse, per dieci ore al giorno.

È senz’altro questa l’esperienza che lo spinge a diventare cronista, ed è tale mestiere a portarlo a viaggiare in tutta la Gran Bretagna, e a fargli conoscere il Paese. Anche, e soprattutto nelle sue ombre. Un certo giorno va a visitare una scuola negli slum di Saffron Hill, a Londra, e non può credere ai propri occhi: edifici cadenti, strutture fetide, degrado, e malattia dovunque. Mai viste prima cose altrettanto tremende, niente di altrettanto scioccante: l’abbandono in cui vive il popolo dei bambini lo tramortisce.

Nessuno si cura di quei bimbi, né del loro corpo, né della loro anima. Molti sopravvivono perché rubano, o si prostituiscono. Altri di notte si riparano sotto i ponti, o si stendono nell’incavo di un portone, o sotto le ruote di un carro. Dickens si infiamma e scrive un pamphlet dal titolo: Appello al popolo d’Inghilterra in favore dei bambini dei poveri. Dove esorta a istruire quelle creature derelitte: solo l’educazione vincerà l’ignoranza che è la madre della miseria, del crimine. Bisogna agire, subito, ci vuole un’azione politica… Già, la politica…

Qui Dickens si ferma e pensa: lui non è un marxista, né un rivoluzionario. È un essere umano, niente affatto ideologico, ma davvero umano, davvero civile, che in quanto tale chiede ad alta voce una riforma dello stato delle cose: non c’è società civile che possa tollerare quell’ingiustizia. È semplice, intuitivo: non può esistere nessuna felicità per nessuno a fronte di tanta clamorosa disparità di condizioni di vita. Dickens ha in sé qualcosa del predicatore, e soprattutto un’immensa vitalità: ama il mondo, ama gli altri, senz’altro ama il suo pubblico, che lo ricambia. E capisce che proprio quella, e cioè la sua capacità di scrivere, è un’arma, anch’essa politica in fondo, e la usa: ha fiducia di poter guidare chi lo legge a vedere cose che non vede. È a questo punto che concepisce prima il Canto di Natale, poi I libri di Natale. Crea così un genere; anzi, come sosterrà Anthony Burgess, Charles Dickens «inventa il Natale».

Ancora oggi, in occasione delle festività natalizie, si entra in libreria e si confida al libraio: vorrei fare un regalo, e quello, se è un libraio gentile e intelligente, che cosa di meglio potrà mai suggerire? Se non per l’appunto il Canto di Natale, che predispone alla bontà, alla compassione? Con assicurato il lieto fine, e la conversione del cattivo Scrooge, l’avido, arido, tirchio Ebenezer Scrooge, che visitato dagli Spiriti del Natale, si converte, si ravvede e finalmente scopre il bene dell’amore per il prossimo. E sconfigge l’egoismo, che è il vero nemico di un mondo giusto, felice.

C’è qualcosa di visionario, di inquietante — anzi, di fantasmatico nella storia, in senso letterale: nella storia abita il fantasma del bambino che è stato in fabbrica, e dei bambini che Dickens ha visto negli slum di Londra. È quel fantasma a trasportarci in un mondo insieme realissimo e fiabesco. Di miseria e di speranza. Visto che la stagione è fredda, nelle storie c’è sempre un camino acceso. Specie nei climi nordici, dove il freddo è una disperazione in più per i bisognosi, il fuoco è un simbolo riparatore, consola; e il calore della fiamma insinua una nostalgia tremenda per chi l’intravveda dalla finestra, mentre lui povero e nudo è esposto alle intemperie. Nella notte di Natale, in un Paese cristiano, che adora il Bambino che nasce in una grotta, come si fa a sopportare che mentre io sto al caldo e mangio, l’altro muoia di freddo e di fame in mezzo alla strada? È su questo senso di colpa che giocano i racconti di Natale. E muovono a pietà i cuori duri di quanti, imbevuti nel pregiudizio, non sanno riconoscere dignità umana al mendicante, all’emarginato.

Se i racconti non avranno la stessa fortuna critica dei romanzi, hanno però all’epoca una straordinaria fortuna di pubblico. Il suo pubblico mai tradisce Dickens. E viceversa. Perché anche qui, in queste prove minori della sua arte immensa, Dickens conferma la propria fedeltà al mondo reale, che sa rappresentare in tutti gli aspetti, anche feroci, anche demoralizzanti; e insieme il suo amore per l’immaginazione, alla quale chiede che comunque ci conforti, e ci conceda almeno un po’ di romanticismo. Realismo e romance — realtà e favola, ecco la materia di cui sono fatti i sogni. E i racconti di Natale di Dickens.

Il libro
Canto di Natale di Charles Dickens (Einaudi Ragazzi, traduzione di Pierdomenico Baccalario, illustrazioni di Mayumi Oono, pagg. 192, euro 16,50, età: 8+)

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