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Maurizio Cattelan: “La prima follia? Fuggire in Spagna con il motorino”

Guardo La nona ora di Maurizio Cattelan – una scultura del 1999 – e penso che lì, nel corpo abbattuto da un meteorite di Giovanni Paolo II si annunciasse tutta la catastrofe dei successivi anni Venti. Opera blasfema? Non credo. E neppure ironica. Profetica e politica, semmai. Come può esserlo un gesto o un evento che comunica al mondo che qualcosa sta cambiando nel profondo.

Definiresti in qualche modo "politica" la tua arte?
"Da un lato credo che tutto sia un atto politico, anche quale caffè scegli di bere alla mattina. Ma ammetto che è una parola che mi spaventa particolarmente se riferita all'arte, perché si corre il rischio che diventi propaganda di una o dell'altra ideologia, e a quel punto smette di parlare a tutti".

Ricorre spesso la parola-feticcio "populismo". C'è un populismo artistico, che salta tutte le intermediazioni, lasciando l'artista davanti al pubblico. È una condizione che reputi auspicabile?
"Mi vengono subito in mente due artisti: Ai Wei Wei e Banksy, il primo ha la medaglia di 'martire' del governo cinese, l'altro è un frenetico commentatore politico dell'attualità. Entrambi sono interessanti perché cercano notorietà sui media e al tempo stesso stimolano una consapevolezza su certi temi, pur con una deriva artistica. È un'arte che si prende molti rischi, anche quello di allontanarsi dall'essenza dell'arte per diventare pura cronaca".

La cronaca implica la chiacchiera, il sentito dire, il mondo dell'opinione. Come la giudichi?
"Non amo affatto la chiacchiera, anzi. Cerco di evitare di darle spazio, sia nella mia giornata sia nella mia testa. Non ho abbastanza tempo per stare dietro alle cose dette a mezza voce. E sono anche un po' sordo".

Non sei un artista reticente, ma hai un modo tutto tuo per renderti invisibile. Non sparisci, non fuggi, adotti una diversa strategia: ti sottrai pubblicizzando le tue opere con molte false informazioni.

"Non penso ci siano false informazioni intorno alle mie opere, per il semplice fatto che ogni interpretazione, se è a questo che ti riferisci, è valida a prescindere che l'abbia pronunciata l'artista. Io stesso sono alla ricerca del significato di quello che faccio, anche quando è finito e presentato in una mostra. Non sono sicuro che produrrei più nulla se sapessi dall'inizio, in modo chiaro e lineare dove sto andando a parare".

Warhol ha in qualche modo sdoganato la pubblicità, tu in che rapporto sei con questo mondo?
"Mi interessa per come manipola il gusto, per come è in grado di vendere sé stessa, anche senza contenuto. Il mio tappeto volante nel mondo della pubblicità è stato il magazine Toiletpaper: mi ha permesso di giocare con quel linguaggio senza aver bisogno di farlo attraverso l'arte. Grazie a Toiletpaper e a tutto il team, a partire da Pierpaolo Ferrari, mi sono potuto impiastricciare le mani con la pubblicità senza imbrattare il mio lavoro. E mi sono molto divertito a farlo".

Ma alla fine, tra arte e pubblicità, chi divorerà chi?
"Continueranno a correre una accanto all'altra, ogni tanto lanciandosi uno sguardo d'intesa, ogni tanto tirandosi i capelli. La migliore pubblicità sa essere perforante, può entrare a far parte del linguaggio comune molto più facilmente dell'arte. Ma la peggior pubblicità ha vita breve, un battito di ciglia ed è passata. L'arte non raggiunge nessuno di questi estremi, anche se per ambizione o incapacità tende alternativamente verso entrambi".

A proposito "Il Bel Paese", opera del 1994 realizzata ispirandoti a un noto formaggio, come è nato?
"Sinceramente? Non ci è voluto molto: è stato sufficiente il vassoio di un pasto intercontinentale in classe economy mentre attraversavo l'Atlantico".

Spesso i tuoi lavori hanno come dicitura "untitled". Che cosa vuoi suggerire o non suggerire: libertà di chi guarda o libertà da chi guarda?
"Suggerisce che sono stato così stolto da non trovare un bel titolo! Sarebbe molto meglio se non si chiamassero Untitled: sono creature zoppe, in attesa di giustizia. È tutta la vita che predico bene e razzolo male, sono sempre stato convinto che il titolo sia parte del lavoro, ma moltissime volte non sono riuscito a trovarne uno. È come se avessi scritto un libro e non riuscissi a trovare il titolo da mettere in copertina".

In un certo senso "untitled" è anche la volontà di lasciare parlare l'immagine. È l'immagine che si dà il titolo da sola?
"Sarebbe bello se fosse così, grazie per averlo detto. Allevia il rimpianto".

Che definizione, ammesso che sia possibile, daresti dell'immagine?
"Una droga di cui stiamo facendo overdose".

La potenza dell'immagine è questa dipendenza per chi la guarda?
"La sua potenza è nella seduzione. Quello che mi affascina di più è che usiamo le immagini come se fossero reali, ma non lo sono. Pur sapendolo continuiamo a farci ingannare, credo che sia intrinseco nella natura umana, il bisogno di credere a ciò che vediamo".

Che rapporto hai con la fotografia?
"Un ottimo rapporto fino quando non mi trovo davanti o dietro l'obiettivo".

E con il cinema?
"Sono un avido consumatore di storie sia al cinema sia sui libri. Ogni volta che vedo un capolavoro mi trovo a pensare alla testa del regista: essere capaci di tenere insieme tutte quegli ingredienti (la scrittura, la luce, inquadrature, i movimenti della macchina, la gestione degli attori) in modo perfetto è la cosa più simile ad avere i superpoteri che io riesca immaginare".

C'è "L'uomo senza qualità", totalmente privo di superpoteri e, per associazione, viene in mente l'artista senza qualità. Che stadio dell'arte è l'assenza di qualità?
"Beh, trovo il titolo del romanzo di Robert Musil fantastico. Ho sempre pensato all'assenza di qualità come stimolo per una ricerca personale, e questa è la condizione di partenza di ogni artista. Io non so mai che progetto farò dopo, sono un ricercatore senza teoria e senza metodo. La mia carriera è fatta di incidenti di percorso che si sono rivelati interessanti, a posteriori. L'arte, a differenza della pubblicità, non deve vendere niente, ma ancora più importante, non deve voler dire niente. È una serie di domande senza risposta condensate in una manifestazione fisica".

Hegel fu il primo a parlare della morte dell'arte. Che poi non voleva dire che davvero fosse morta, ma che era impossibile essere tragici, al più si è comici.
"Credo che il segreto risieda nel non prendersi mai troppo sul serio, sia quando senti di essere tragico, sia quando vuoi far ridere".

A questo proposito c'è chi avvicina la tua opera al beffardo, al parodico, al grottesco, al capriccio e al raccapricciante. Ti riconosci?
"È sempre difficile vedersi con gli occhi degli altri. Per quanto ci provi sarà sempre un'esperienza straniante, soprattutto per uno come me che fatica a riconoscere sé stesso allo specchio alla mattina! La sera è più semplice, perché quello che ho fatto durante la giornata mi definisce, posso tirare le somme delle mie azioni, capire cosa ci sia da migliorare, dove investire il mio tempo la mattina successiva".

C'è la linea pop: Wharol, Koons, Hirst e quella che da Duchamp passa per Manzoni e Boetti e arriva a te. Ti convince quest'opera di "macelleria" nella arte del '900?
"Non credo molto nell'esaltazione dei singoli personaggi: siamo tutti il frutto di quello che ci ha preceduto, di quello che ci circonda, della cultura in cui siamo cresciuti. Quello che voglio dire è che se Einstein non avesse scoperto la relatività l'avrebbe fatto qualcun altro, magari con qualche anno di ritardo, ma qualcuno ci sarebbe arrivato. È successo con il telefono, per dire. Quelli che nomini sono coincidenze, concrezioni di una serie di eventi fortunati e di contesto che hanno portato proprio quelle persone a conquistare delle posizioni di rilievo nel loro campo. Negli ultimi anni abbiamo imparato come questa visione sia completamente distorta, perché frutto di una serie di privilegi di cui noi uomini bianchi abbiamo goduto senza mai metterli in discussione. Oggi vedo questo mondo frantumarsi, e sono molto più curioso di scoprire cosa ci riserva il futuro che guardare a questi personaggi nel passato".

Sei d'accordo con la constatazione che lo scandaloso e il provocatorio sono le nuove forme del conformismo?
"Dipende da cosa intendi. Se parliamo di etichette e titoli dei giornali sì, assolutamente: i media sono responsabili di questa deriva, danno voce allo scandalo del giorno, dimenticato il giorno dopo, per ottenere più clic, visualizzazioni, pubblicità. Se parliamo di cosa sia davvero provocatorio, penso che l'oltraggio abbia un ruolo fondamentale nella crescita di una società, perché ci spinge a interrogarci su certi limiti e convenzioni che, attraverso la discussione, ci scopriamo pronti a superare".

In un certo senso, e a proposito di oltraggio, hai sdoganato il concetto di morte: animali imbalsamati, bare, impiccagioni, accidenti. Cosa rappresenta l'esperienza della morte: il proprio limite invalicabile? La sola autenticità possibile? Il modo di affrontare i propri traumi?
"Forse ho un problema con l'esperienza della morte, non sei il primo che me lo fa notare. L'arte è un modo per liberarti dei tuoi problemi, dandoli agli altri in forma di opere. Nel suo essere inutile cela un potere taumaturgico, sia per chi la fa sia per chi la osserva. È il potere delle cose superflue, ci rassicurano, ci sollevano, ci fanno pensare di essere immortali. Sono un antidoto contro la paura della morte".

Aver lavorato come infermiere e poi praticato gli obitori, insomma occuparsi della malattia e della morte come entità reali, cosa ha significato?
"Un tempo si partoriva e moriva in casa, magari anche nello stesso letto. Non è poi da tanto che vita e morte accadono in un luogo remoto, lontano dal quotidiano. Non so dire se fosse meglio o peggio, ma personalmente mi ritengo molto fortunato ad aver fatto quelle esperienze: avere a che fare coi malati e poi coi morti mi ha insegnato a dare il giusto peso a ogni evento della mia vita, a rimettere tutto nella giusta prospettiva".

La tua opera sembra decretare la morte del soggetto. I protagonisti (un papa, un dittatore, un bambino…) per quanto riconoscibili sembrano volersi votare all'inerzia, alla rassegnazione, alla stasi. È così?
"Mi interessa trovare il punto di rottura, il momento in cui il soggetto vacilla, cade. È lì che l'umanità e l'inadeguatezza della persona si mostra in modo cristallino. Ed è in quel momento che ognuno può identificarsi, riconoscersi in quel fallimento. È successo per secoli con l'immagine della crocifissione, i miei forse sono tentativi di riattualizzare quell'icona".

Che rapporti hai con la religione? In alcuni tuoi lavori il richiamo è preciso.
"Sono cresciuto immerso nell'educazione cattolica fino al midollo: non importa quanto tempo sia passato, è come il peccato originale, è un fardello che ti porti dietro, non puoi liberartene".

Provieni da una famiglia modesta. Segnata anche da qualche violenza domestica. Il Cattelan di allora spiega quello di oggi?
"Tra casa, chiesa e scuola ognuno ha fatto la propria parte per lasciare il segno: ho una collezione di episodi educativi poco edificanti per come concepiamo oggi il rapporto con l'infanzia. Sul muro della mia classe in prima e seconda elementare c'era un battipanni: non l'ho mai visto in funzione, ma non credo che fosse lì per togliere la polvere ai tappeti. Ma all'epoca era diverso, era molto comune che i bambini più vivaci venissero redarguiti fisicamente. Se pensi a quante cose sono cambiate da allora, intendo proprio nel modo di vedere il mondo… quando nel 1964 è stata abolita la segregazione razziale negli Stati Uniti io avevo quattro anni, per dire".

Sei stato un pessimo scolaro. Ma poi nella vita hai avuto grandissimi riconoscimenti. Ti saresti mai aspettato un successo di queste proporzioni?
"Non sono affatto sicuro che sia una regola, ma di certo la caparbietà nel mettere in discussione le imposizioni dall'alto è una caratteristica fondamentale per non fermarsi al palo. Per rispondere alla tua domanda, no, all'epoca non avevo idea di che vita mi aspettasse: è triste quando ci penso, ma non avevo grandi ambizioni. L'unico sogno importante era l'idea di indipendenza, economica e familiare. Misuravo il grado del mio successo sulla base della mia capacità di rompere le catene che mi trattenevano. È quando dimostri a te stesso che la tua vita è nelle tue mani, quando diventi padrone del tuo tempo, che puoi trovare lo spazio per farti delle domande sul futuro, ed essere davvero ambizioso".

C'è chi ha visto nel ricorrere dell'asino nelle tue opere, un rinvio alla tua storia personale, ai fallimenti scolastici.
"L'asino è la storia di tanti, diciamo che mi è sempre sembrato più facile e onesto verso me stesso celebrare i fallimenti invece dei successi. È curioso perché il successo mi interessa come obiettivo, per non dirmi mai soddisfatto di ciò che ho ottenuto, ma faccio una gran fatica a pagarne le conseguenze. Essere al centro dell'attenzione mi mette molto a disagio. È come coi parenti a Natale: vuoi stare simpatico agli zii perché ti facciano il regalo, ma non hai altrettanta voglia di subirne le attenzioni".

Un tuo lavoro raffigura un alunno con le mani sul tavolo trafitte dalle matite. Davvero la scuola è stata per te una gran sofferenza?
"Credo che sia parte della vita scolastica, la sofferenza. Perché è una condizione umana, che nasce dal confronto con gli altri, dalle cose che non sai e che devi imparare a tue spese. Avrei voluto che fosse diverso? Sì certo, ma credo che sarebbe identico se dovessi tornarci oggi, non penso di essere cambiato molto. Quello che mi ha sempre turbato è il rapporto insegnante-allievo: in qualsiasi altro contesto uno può alzarsi e andarsene, a scuola no. Continua a sembrarmi sbagliato il "salire in cattedra": credo che non si smetta mai di imparare, e i docenti dovrebbero essere i primi a ricordarselo. Quando abusano del loro potere , quando negano uno scambio alla pari, è lì che si creano mostri".

In un certo senso, ma è solo una mia impressione, c'è qualcosa di premoderno nella tua opera. Di medievale, nel senso che quello che fai sembra imporsi come si imponevano le reliquie (il che non escludeva che potessero essere dei falsi).
"Le opere d'arte e reliquie hanno molto in comune. A prescindere da ogni ragionevolezza siamo disposti a vedere in esse un potere che va al di là della loro presenza fisica. Come le reliquie, l'arte richiede un atto di fede. Entrambe funzionano come oggetti magici".

Qual è il tuo rapporto con l'arte antica e moderna? Chi ti piace degli artisti o magari quali opere sono nel tuo sguardo?
"Ammiro gli artisti che nella storia sono stati capaci di essere, come dire, larger than life, persone che hanno saputo progettare una basilica ma anche un affresco, tratteggiare un volto ma anche progettare una macchina per volare. Ammiro l'ambizione sconfinata del genio umano quando punta all'immortalità attraverso la propria opera".

Mi incuriosisce la tua collaborazione con Harald Szeemann.
"Non la definirei una collaborazione, mi ha invitato a partecipare ad alcune mostre e gliene sono stato grato. All'epoca andai a trovarlo in Svizzera, e mi ricordo di essere stato colpito dal suo muoversi con naturalezza in un territorio pericoloso: ballava al confine tra l'essere un curatore e l'essere un artista".

Ti sei creato dei doppi: Gioni, Elio, e magari altri. Cosa sono: emissari, corpi autonomi, cloni indipendenti, performatori?
"Sono autori, persone che mi erano vicine in quel momento e che capivano meglio di me cosa stessi facendo. Sono stati lo specchio grazie al quale ho potuto imparare a (ri)conoscermi".

Vista la tua predilezione per Houdini hai mai pensato di farti sostituire da un mago?
"Se avessi un mago a disposizione, o il genio della lampada, avrei due desideri soltanto. Uno, far cadere nell'oblio tutti i lavori di cui non sono soddisfatto; due, cambierei i titoli della maggior parte di quelli che rimangono".

Cambieresti anche il paese in cui vivi?
"Per quello c'è la politica e c'è, o almeno c'era, il voto".

Mi fai venire in mente una tua opera del 1989: "Il voto è prezioso, tienitelo". Uno slogan al contrario, un'antipolitica nei tempi in cui la politica era centrale. Che rapporto hai con i riti elettorali? Le schede, le urne, le matite?
"Tutti i voti sono preziosi, perché tutti significano qualcosa, anche quelli non dati. Non mi piace quando il voto viene letto come una conferma del sistema precedente, e non come una spinta a cambiarlo, renderlo migliore, più equo e inclusivo. L'astensionismo può essere una forma di protesta, il segno di un malessere che deve essere preso in considerazione, non accantonato in quanto fisiologico. Non è un discorso antipolitico, ma un discorso a favore di una politica dell'eccellenza, che fatico a vedere oggi come allora".

Come vivi il mercato dell'arte e chi ne determina le scelte?
"È un mercato come gli altri, e funziona nello stesso modo: la legge della domanda e dell'offerta è l'unica legge che conta".

C'è una qualche differenza tra un aforisma, più o meno geniale, e una cazzata detta al momento giusto?
"La stessa differenza che c'è tra una bella domanda e una brutta risposta".

Negli anni Ottanta eri pochissimo conosciuto. Soffrivi per non essere famoso o soffri oggi per esserlo troppo?
"Non direi che ho mai sofferto, ho sempre pensato che la capacità di arrivare dove volevo dipendesse solo dalla mia determinazione, e mi sono mosso di conseguenza. Ho orientato tutti i miei sforzi e la mia attenzione per arrivare a essere indipendente e autonomo, e mi sono ritrovato qui. È stata una bellissima avventura fino a oggi, e mi ritengo un privilegiato. La domanda che non mi abbandona mai è: quando finirà?".

È vero che giravi con un motorino "Ciao" ed eri capace di fare in una giornata anche 200 chilometri?
"Non esattamente: era un Califfo, e ho fatto 3000 chilometri in sette giorni. Avevo diciassette anni e facevo l'apprendista contabile, mi avevano dato una settimana di ferie. Sono uscito di casa dicendo a mia madre che andavo in Spagna, non credo che avesse capito che mi riferivo alla nazione. Ho fatto Padova- Barcellona con le borse di benzina al posto delle valigie, perché il buon Califfo aveva un serbatoio da un litro. Funzionava bene in discesa e in piano, ma in salita andava solo a spinta. La vibrazione era tale che la mattina mi svegliavo tremando".

Hai annunciato tempo fa di non voler più essere artista. Anche questo è stato un modo di mentire?
"Non ho fatto altro che essere me stesso, con tutte le mie debolezze e qualche punto di forza. Come tutti, almeno credo, alterno giorni in cui mi sento invincibile e sicuro di quello che sto facendo, e altri in cui mi sembra di non andare da nessuna parte. Per quanto uno possa ragionare, ponderare e valutare, gli errori si fanno e se ne pagano le conseguenze. Non mi vergogno a dire: ho sbagliato. Credo sia molto più grave non aver tentato".

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