BANGKOK – È un giorno qualunque del giugno scorso durante una delle tante guerre dimenticate nell’Arakan birmano. Quando Thein Nu, 36 anni, sente le armi da fuoco sparare a poca distanza da lei prende uno dei suoi 4 figli e corre assieme ad altri familiari e donne del villaggio a casa della suocera. Ma attorno a mezzanotte i soldati dell’esercito del Myanmar le scoprono dopo aver sentito il pianto di un bambino.
Illuminata da una torcia in faccia, scelgono di violentare lei, la più giovane del gruppo, certi dell’impunità goduta da tutti i loro commilitoni birmani spediti a domare la ribellione armata nello Stato dei separatisti dell’Arakan Army. Sono in quattro, uno solo assiste per coprirgli le spalle. Ma gli stupratori in uniforme sottovalutano la personalità della donna: grazie alla sua denuncia nei giorni scorsi tre di loro sono stati condannati dal “loro” tribunale militare a 20 anni di lavori forzati. È un prezzo mai pagato finora da nessuno dei tadmadaw, i soldati della etnia di maggioranza bamar, o buddhisti birmani come la leader e Nobel della Pace Aung San Suu Kyi.
Thein Nu – anche lei buddhista – è il nome che le ha dato l’agenzia France Presse alla quale la donna ha raccontato la sua storia di riscatto inusuale in queste regioni dove regnano terrore, fame e ignoranza. Rivela risvolti familiari tristi e ulteriormente significativi della difficoltà per una donna meno determinata di lei a denunciare i suoi aguzzini. Suo marito, da anni emigrato in Thailandia per sfuggire a guerra e fame mantenendo la famiglia, l’ha ripudiata appena saputo cosa era successo e ha smesso di mandarle i soldi mensili che le permettevano di sopravvivere assieme ai numerosi figli.
"Molte donne come me hanno già sopportato la stessa cosa", ha detto Thein Nu all'Afp. "Se fossi stata zitta non so quante altre sarebbero ancora abusate in silenzio. È un invito alle altre di fare come me”. Lo stigma sociale non è stato però il maggiore ostacolo incontrato da Nu nella sua ricerca di giustizia. I militari da lei accusati e riconosciuti, hanno detto che si era inventata tutto, ma i giudici con le stesse uniformi non li hanno creduti. Hanno capito che il volto di Nu, mentre raccontava che cosa le era successo, non era quello di un’attrice ma quello di tante donne come lei, che avrebbero voluto denunciare le sevizie subite e hanno preferito di no perché è quasi sempre stato inutile e dannoso farlo.
"Sono sia felice che triste", ha spiegato Nu all’agenzia di stampa dicendosi ancora incredula della decisione del tribunale. "Non credo certo che questo verdetto fermerà gli stupri e gli abusi contro le donne nelle aree di conflitto perché loro (i militari) sono persone inaffidabili con due facce". In ogni caso la punizione dei tre tadmadaw è stata pubblicizzata ampiamente da fonti militari e media governativi per dimostrare la trasparenza delle indagini effettuate nel Paese sulle denunce di abusi umanitari.
Forse il Myanmar ha deciso di recuperare almeno in parte l’immagine inquietante trasmessa al mondo con il massacro e l’esodo dei musulmani Rohingya che vivevano a loro volta in Arakan lungo i confini col Bangladesh. I suoi generali e ufficiali sono per questo sotto istruttoria processuale all’Aia per crimini contro l’umanità, e le denunce di stupro delle donne Rohingya costituiscono migliaia di pagine del dossier delle stesse Nazioni Unite, che i generali considerano “manipolato” e “falso”.
Seppure soddisfatti dal precedente importante stabilito da Thein Nu, molti attivisti spiegano che è troppo presto per giudicare se d’ora in poi ci sarà davvero una svolta nel comportamento etico delle forze armate. Phil Robertson di Human Rights Watch ne dubita, ricordando il passato di negazioni e perfino controdenunce per diffamazione contro le vittime. Thein Nu dal canto suo vuole vedere davanti alla gustizia anche il quarto ufficiale anziano e la Corte ha già annunciato che sarà interrogato e indagato.
Nel frattempo, da quando sono state emesse le condanne, sono aumentate le denunce di altre vittime di stupro. Lo ha rivelato Nyo Aye, presidente dell'Arakan Women Network che ha fornito a Nu e figli assistenza legale, consulenza e rifugio. "Per ora manteniamo viva la speranza – ha aggiunto – che accadrà lo stesso per casi simili accaduti in altre aree etniche del Paese".
La coraggiosa Nu ora aspetta con trepidazione un altro verdetto non legale che – spera – arriverà col tempo, se suo marito deciderà di riprenderla con sé assieme ai bambini. "Soffro silenziosamente per questo dolore, posso solo sperare che gradualmente mi capirà ", ha detto all’Afp.
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