Ci sono due buone ragioni per gioire dell'assoluzione di Virginia Raggi anche in secondo grado. La prima è di carattere generale: non è mai un brutto giorno quello nel quale un cittadino vede riconosciuta la propria innocenza in un tribunale, tanto più se riveste un'importante carica pubblica. In troppi – molti della stessa parte politica della sindaca – hanno concepito in questi anni la giustizia come una macchina che funziona solo se produce colpevoli. Un processo che si conclude con una assoluzione non è meno "riuscito" di uno con esito opposto né va giudicato in sé un sopruso: si può dare il caso di una vicenda dove emergono ipotesi di reato concrete che non reggono al vaglio dei giudici. È lo Stato di diritto, un pilastro della democrazia.
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di
Laura Venuti e Maria Elena Vincenzi
La seconda ragione per gioire è invece tutta politica: la condanna di Raggi avrebbe innescato un meccanismo vizioso, un dibattito sviato dai problemi della città e le possibili soluzioni. Sarebbe ripartito lo psicodramma grillino sulle regole interne, la Raggi può candidarsi comunque, no non può farlo oppure può farlo ma senza più il simbolo del Movimento (lei, in ogni caso, aveva già annunciato che si sarebbe presentata di nuovo alle elezioni anche se condannata).
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Qualunque fosse stato l'esito di questo dibattito, la competizione elettorale sarebbe stata influenzata dal tema giudiziario e anche il verdetto elettorale sarebbe stato meno limpido, condizionato almeno in parte dalla sentenza. Invece Raggi merita di essere giudicata dagli elettori senza interferenze e senza alibi, per quanto ha fatto nei suoi cinque anni di mandato e per quanto non ha fatto pur avendolo promesso. Raggi ha bisogno di sentirsi dire forte e chiaro cosa pensano le romane e i romani del suo operato, e solo di quello. Tra le molte cose che occorrono in città c'è anche l'urgenza di un responso elettorale netto e non strumentalizzabile, per voltare pagina e restituire un po' di dignità alla Capitale del Paese.
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