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Stringara dalla A ai detenuti: “Il calcio è libertà provvisoria”

«Una volta durante una partita do indicazioni a un difensore e gli urlo: Aspetta a uscire! Aspetta a uscire! Arriva un suo compagno e mi fa: mister, questo c'ha due ergastoli, hai voja, ce n’ha da aspettà. Ci siamo messi tutti a ridere, non ci fermavamo più». Si può ridere anche in carcere, questa è la seconda notizia. La prima è che si può giocare a calcio. Da cinque anni Paolo Stringara allena la squadra della Casa Circondariale di Livorno «Le Sughere». «Quando andai dall'allora direttrice Santina Savoca e le proposi di formare una squadra, lei cercò di dissuadermi: ci hanno provato in tanti, vengono la prima volta, poi mollano, lasci perdere. Insistetti: mi lasci provare. Il primo giorno al campo ai ragazzi dissi: possiamo fare due cose, o rincorrere un pallone come si fa in cortile oppure provare a giocare a calcio seriamente. Decidete voi». Erano poco più di una decina, ora sono sessanta.

La squadra si chiama «Liberi dentro». Partecipa al campionato Uisp di calciotto, due allenamenti alla settimana e – va da sé – partite sempre in casa. Aspettano la fine del lockdown per tornare a giocare. Sono tutti detenuti di alta sicurezza. E quindi: associazione di stampo mafioso, omicidio, rapina a mano armata, 20-30 anni sul groppone, ci sono anche tre-quattro ergastolani. Triplice fischio finale, fine pena mai. «Ma il campo livella tutto. Io non ti giudico, ti alleno». Tre dribbling, due tackle, forse un percorso di riabilitazione. «Il calcio ti migliora, ti dà un'identità. Non c’è tanto da fare i filosofi, mi fa star bene passare qualche ora con loro e tanto basta, è volontariato e mi riempie la vita. Ci tengo a dirlo: siamo una squadra vera, con gli scazzi, gli scherzi, la voglia di dimostrare che sei bravo».

Paolo Stringara, 58 anni, il capello argentato, lo sguardo sveglio e disincantato, quarto figlio di un maresciallo di marina e di una infermiera, toscano di Orbetello, casa a Livorno, una moglie, due figli – Vittoria di 11 anni e Aurelio di 18 – quarant'anni di calcio attraversati con la serietà di chi ama il pallone e la consapevolezza del privilegio. Da calciatore: Siena, Bologna, l'Inter all'alba dei ’90. Da allenatore: 16 squadre in 20 anni, col Livorno le stagioni migliori, oggi è nello staff dell'ex compagno Jurgen Klinsmann, prima con la nazionale americana e poi con l’Hertha Berlino. «Nella vita me la sono “sminestrata” bene – dice – ma quando vedo questi ragazzi ho la conferma che il confine tra dentro e fuori è minimo. Dipende da dove nasci, dal destino, dalle scelte che fai. Detesto chi punta il dito. Ho litigato di brutto con un paio di amici, ma amici da una vita, perché mi dicevano: oh Paolo, ma che vai a fare con quei delinquenti?».

I delinquenti lo hanno fatto felice quando gli hanno detto «Paolo, non puoi capire cosa significhi questa squadra per noi. Alla prima partita arrivano l'arbitro e la squadra avversaria e i miei ragazzi li accolgono con un applauso: è stata una cosa bellissima. Qui ho trovato una forma di rispetto che nel calcio che ho frequentato è sparita da tempo. Ok, hanno fatto le loro cazzate, hanno causato dolore, ma in fondo non sono uomini anche loro? Ripeto: io non giudico, provo solo a capire. Ho portato qui dentro Klinsmann e mio figlio, credo sia importante mischiarsi, dare un senso alle cose che facciamo». Ogni tanto a Stringara capita di incrociare qualche detenuto in permesso sul lungomare di Livorno. «Un giorno ne trovo uno, ci facciamo un caffè. Avevo il cuore in tumulto, lo guardavo e pensavo che era la sua prima uscita dopo vent'anni di carcere. Vent’anni, ti rendi conto? A cosa stava pensando? Come lo vedeva questo mondo? Cosa si aspettava?». Troppe domande, il giorno dopo erano in campo, uno a spiegare come si difende a tre, l'altro in libertà provvisoria sulla fascia destra.

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