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Quando regnavano i Reagan

Sin dalle prime immagini, il documentario The Reagans, realizzato da Matt Tyrnauer, mostra un approccio severamente critico: liberal convinto, l’autore ritiene che l’amministrazione Reagan abbia ricevuto un giudizio troppo benevolo, e che il suo modo di interpretare la presidenza sia stato il precursore dell’approccio tenuto in questi ultimi anni da Trump, con la differenza che «Reagan proveniva da Hollywood, mentre Trump dalla reality tv». Autore di Where Is My Roy Cohn?, Tyrnauer finisce per cadere nella stessa sindrome che colpì Erroll Morris quando intervistò Robert McNamara in Fog of War: nel corso della lavorazione, il giudizio negativo su Reagan si trasforma in una presa di posizione più sfumata e articolata, dove finiscono per imporsi numerosi elementi di ammirazione.

Le prime immagini di questa eccellente docuserie in quattro parti targata Showtime mostrano le scarpe perfettamente lucidate di Reagan mentre prova un discorso televisivo. Si prepara da interprete consumato, e poi confida a un intervistatore: «Se non sei un buon attore, non puoi essere un buon politico». Oggi Reagan è tra i presidenti più popolari degli Stati Uniti, a pari merito di Theodore Roosevelt e subito dopo Lincoln e Franklin Delano Roosvelt. Tyrnauer attribuisce questo successo all’indubbio talento di comunicatore, a un ottimo staff e al ruolo della seconda moglie Nancy: il documentario è focalizzato infatti sulla coppia, cercando di analizzare quanto sia stata importante l’influenza di lei, in particolare negli ultimi due anni di presidenza, quando affioravano sul marito i primi segni dell’Alzheimer.

La serie parte dalla gioventù a Tampico, nell’Illinois, segnata dal trauma di avere un padre alcolizzato, quindi Hollywood, dove capisce di avere un talento limitato, ma intuisce le potenzialità politiche offerte dal mondo dello spettacolo. Diventa il pupillo della gossip columnist Louella Parsons, sposa Jane Wyman, con la quale condivideva all’epoca simpatie liberal, ed entra nelle grazie del potentissimo Lew Wasserman, che lo spinge, una volta diventato capo del sindacato degli attori, a prestare il volto per filmati commerciali, trasformandolo in «una pubblicità vivente per l’America delle grandi aziende». Riesce quindi a fargli capire che il suo talento non era sufficiente per diventare un grande attore, ma era formidabile per comunicare, anche in altri campi: Tyrnauer mostra il capolavoro retorico con cui, deponendo presso la Commissione per le attività antiamericane, Reagan riesce a non fare alcun nome ribadendo l’assoluta fiducia nei valori americani e nella lotta al comunismo.

Sono gli anni in cui divorzia da Jane Wyman e sposa la newyorkese Nancy Davis, figlia di un celebre neurochirurgo «affascinante, razzista e antisemita»: è con lei che aderisce al partito repubblicano, diventando un collaboratore dell’ultraconservatore Barry Goldwater. Ed è con Nancy, la quale si avvaleva anche delle consulenze di astrologi, che costruisce la vittoria di due mandati come governatore della California, e la conquista della Casa Bianca, dove, nell’elezione della riconferma, arrivò a vincere 49 Stati a 1. Alcune delle immagini di repertorio hanno un grande valore storico, a cominciare dal discorso della prima inaugurazione, nella quale Reagan espresse la propria agenda politica ed economica: «Il governo non è la soluzione del problema: è il problema». Ci sono anche sequenze raggelanti, come quelle dei disoccupati nel momento massimo della liberalizzazione, messe in parallelo con una battuta tristemente nota, nella quale il presidente parlò di «senzatetto per scelta»: non meno disdicevole un commento razzista a proposito dei delegati africani all’Onu.

La linea economica, sottolinea Tyrnauer, avviò alla distruzione la classe media. Ed è singolare la scelta di dare poco spazio al rapporto con Margaret Thatcher, segnato dalla condivisione ideologica e la stima reciproca. Affascinante invece il racconto dello scudo spaziale realizzato in opposizione all’Unione Sovietica, così come quello della battaglia contro «l’impero del male», dove si trovò a fianco di papa Wojtyla e Lech Walesa. E potrebbe essere stato Reagan a suggerire a Walesa una celebre battuta sul comunismo: «Il modo più lungo e doloroso di passare dal capitalismo al capitalismo». Il totale silenzio che tenne a proposito dell’Aids finisce oggi per apparire perfino più grave dello scandalo Iran-Contras: fu Liz Taylor, dopo la morte del comune amico Rock Hudson, a chiedergli di prendere una posizione pubblica, e solo al termine della presidenza Reagan pronunciò il termine Aids dichiarando che lo avrebbe «combattuto con ogni mezzo».

Negli ultimi tempi a Washington circolava la voce che fosse Nancy il vero presidente: fu certamente lei a convincerlo a utilizzare il retroterra d’attore nei momenti più complessi, persino con le barzellette. Una tattica che ha certamente aperto la porta a infinite degenerazioni successive, a cominciare da Trump, ma che allora si rivelò di straordinaria efficacia, come quando, anziano e già malato, fece dimenticare i problemi di sperequazione economica e lo scandalo Iran-Contras dicendo in un dibattito televisivo a Mondale: «Non approfitterò della giovane età e dell’inesperienza del mio rivale». Oggi la politica ridotta a slogan mostra tutti i suoi limiti e la sua povertà, ma nulla esalta la capacità di sintesi e lo straordinario impatto politico di Reagan come le sei parole che pronunciò davanti alla porta di Brandeburgo nel pieno dei negoziati con l’Unione Sovietica: «Butti giù quel Muro, Mr.Gorbaciov!».

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