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Obama Spa: tutti i dollari del Presidente

È un libro così unico, finanziariamente parlando, che anche sulla foto di copertina stava per scorrere il sangue. Sì, perché la fotografa Anna Wilding sosteneva che quell'Obama in bianco e nero, sorridente, con lo sguardo inclinato verso sinistra immortalato da Pari Dukovic, altro non era che uno smaccato plagio di un suo scatto. E quindi, stando al Daily Mail, lei pensava di far causa perché se l'anticipo per la produzione letteraria congiunta degli ex inquilini della Casa Bianca era stato di oltre 65 milioni di dollari, magari la foto qualche decina di migliaia ne valeva. E a lei niente? L'aneddoto, che non mi risulta aver avuto code giudiziarie, serve solo per far capire gli ordini di grandezza di questa vicenda. Il 44° presidente degli Stati uniti passerà alla storia, entre autres, come una una formidabile macchina da soldi.

Fin quando viveva a Chicago l'ex prof di legge portava a casa 85 mila dollari l'anno. Era decisamente più breadwinner la moglie Michelle che, come vicepresidente degli ospedali universitari della città, ne guadagnava già 317 mila. Poi, nel 2005, lui entra in Senato e si trasferiscono a Washington. Dove, dodici anni, due mandati presidenziali e due libri dopo, il loro conto in banca supera i 20 milioni. E tutto ciò prima del contratto del secolo, secondo solo all'accordo monstre da 150 milioni strappato da James Patterson ad Hachette, ma per 12 libri contro i due memoir della power couple. Neppure il Covid ferma l'Obama s.p.a. Anzi, come succede con le azioni delle aziende pantofolaie tipo Zoom, Netflix e Amazon, potendosi muovere poco magari la gente legge addirittura di più.
Se l'entità dell'accordo economico è senza precedenti, Barack e Michelle sono quelli che si sono arricchiti di più? Stando a un meme messo in giro da ultras trumpiani, meglio di loro avrebbero fatto solo i Clinton, entrati al celebre indirizzo di Pennsylvania Avenue con 480 mila dollari sul conto corrente e usciti con 100 milioni. I certosini revisori di FactCheck.org confutano i numeri, ma confermano che i Clinton restano per il momento imbattuti. Però loro avevano preso solo 36 milioni per i libri di memorie. Tacendo delle recensioni. Con la feroce Michiko Kakutani del New York Times che nel 2004 aveva incenerito il My Life di Bill definendolo "noioso da far incrociare gli occhi" e "minato da auto-indulgenza" per incensare invece Dreams from my Father (I sogni di mio padre), dell'allora neo-senatore Barack, come l'opera di "un raro politico che sa scrivere per davvero" con una voce "elastica, personale, capace di tenere insieme tutto, dalle dense discussioni di politica estera ai ricordi di strada, ai commenti incisivi sul diritto costituzionale fino a aneddoti vagamente new age". Che, per una che aveva riassunto il memoir di Jonathan Franzen come "ritratto dell'artista da giovane testa di cazzo", equivale a un Pulitzer.

D'altronde anche il vostro cronista aveva incrociato l'allora matricola politica a una presentazione di quella storia familiare (l'anticipo era stato di 40 mila dollari) alla Barnes & Noble di Union Square a New York e aveva intuito che avrebbe fatto strada. C'era così tanta gente, così emozionata, che la sala era già piena due ore prima, al punto da far derubricare l'evento di qualche giorno dopo con la leggenda Tom Wolfe a un mezzo fiasco. Ma torniamo al carpiato da classe media a membro dell'1 per cento. Cominciando dallo stipendio da 400 mila dollari l'anno (di pensione ora ne prende 200 mila) che, per i due mandati, fa oltre 3 milioni. Poi i diritti dei libri, compreso The Audacity of Hope (L'audacia della speranza) e un volume per ragazzi, che in totale superano i 15 milioni di dollari. Ma il meglio arriva dopo la presidenza.
L'accordo con Netflix per produrre film, a partire dal bel documentario Made in Usa – Una fabbrica in Ohio, il cui importo è segreto ma si aggirerebbe nell'ordine dei milioni di dollari. E poi il circuito delle conferenze, vecchia specialità dei Clinton, pagate fino a 400 mila dollari l'una. Con tutto questo ben di Dio, pur mantenendo la casa a Chicago, non lontana da dove aveva vissuto Enrico Fermi, che il secret service ha presidiato per tutti questi anni, gli Obama ne hanno presa un'altra a Washington. Una villetta da 8 milioni, a quanto pare meno costosa solo di quella comprata nei paraggi da Jeff Bezos di Amazon. L'altro lusso che la nuova opulenza ha suggerito è la filantropia. Dal 2000 al 2004 avevano donato 10 mila dollari, meno dell'1 per cento dei loro guadagni, contro gli 1,6 milioni del decennio successivo, pari all'8 per cento. E così, simbolicamente ed esentasse, si può dire completata la transizione al ceto affluente.
Il fatto è che, come nota George Packer sull'Atlantic, "Obama entra in politica come scrittore" mentre tipicamente avviene il contrario. Con gli ex-presidenti che si immolano all'autobiografia, sovente appaltata a ghostwriter, con l'entusiasmo riservato all'ispezione colonscopica. Non così il nostro, che ha confessato di scrivere a mano su un blocco e di ingaggiare corpo-a-corpo con i paragrafi anche di ore, pur di arrivare al risultato che ha in mente. Tutt'altro approccio rispetto all'efficientismo di Clinton, per dire, che aveva reclutato lo storico Ted Widmer per lunghe sessioni di interviste i cui materiali trascritti l'ex presidente aveva poi editato. Ed è così che, tra gli altri record, Obama ha conquistato anche quello del tempo che gli ci è voluto per pubblicare: tre anni e dieci mesi. Solo Nixon era stato così lento, ma lì lo scoglio era stata la riscrittura del Watergate.
Per l'eloquente figlio di un economista kenyano è stato un ottimo affare, ma per la casa editrice? L'autore, ipotizzando royalty del 10 per cento su un prezzo di 20 dollari, matura 2 dollari a copia. Quindi servirebbe venderne oltre 30 milioni per rientrare dell'anticipo. Solo superata quella soglia la casa editrice gli paga la differenza ("Se succede", stando a una citazione apocrifa di Andrew Wylie, il temutissimo agente ribattezzato "lo sciacallo", "vuol dire che non ho fatto bene il mio lavoro" perché l'anticipo, che il libro vada bene o male, non si restituisce).
Se la storia è di qualche insegnamento, i Clinton hanno earned out, superato l'anticipo. E gli Obama scrivono meglio. Per prepararsi all'incredibile sforzo produttivo di un'uscita che è stata l'equivalente editoriale di quella del vaccino, un milione e mezzo di copie sono state stampate in Germania e spedite in America con i container. Un milione e 700 mila sono andate a ruba nella prima settimana. I "sogni di suo padre", parafrasando il primo bestseller, non erano che il figlio diventasse ricco, ma è successo. Il sorriso in copertina, occasione della baruffa fotografica, è quello di un uomo soddisfatto. "Grazie a una lunga esperienza Obama ha imparato che viene meglio" ha commentato il direttore del New Yorker David Remnick, che l'ha incontrato spesso, "con un ampio sorriso che scopre i denti. Un millisecondo dopo il flash l'espressione si rilassa, il sorriso cade, il sipario si chiude". Fino al prossimo speech, alla copertina del seguito di Una terra promessa. Sì, avevo dimenticato di dire che sarà in due parti.
Sul Venerdì del 18 dicembre 2020Original Article

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