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Il centenario di Tusa, l’Indiana Jones siciliano

«Fermi, non scappate perchè vi debbo solo parlare. Voglio farvi una proposta: voi da domani in poi lavorerete per me, per la Soprintendenza, però ricordate che dovete abbandonare completamente l’illegalità. Chi farà questo sarà ben accetto, chi invece vorrà continuare a fare il tombarolo, io lo combatterò in tutti i modi e vedete che ne sono capace».Vincenzo Tusa sapeva bene che i tombaroli conoscevano ogni angolo del sito di Selinunte, ogni scorcio della grande area che custodiva i resti della città antica, meglio di chiunque. Così, da soprintendente alla Sicilia occidentale, pensò di "sfruttarli" legalmente e di coinvolgerli nella sua avventura alla scoperta di quello che divenne uno dei parchi archeologici più grandi d’Europa. Erano i primi anni Settanta e Tusa intuì che la tutela sarebbe stata l’arma migliore per la conoscenza del patrimonio a cui contribuì soprattutto diffondendo un senso comune di appartenenza e condivisione.

Oggi, proprio il parco della sua Selinunte, custodisce le sue ceneri insieme a quelle della moglie Aldina Cutroni, a cento anni dalla nascita del grande archeologo siciliano. Lungimirante, generoso e curioso, Tusa (Mistretta, 1920) è stato uno degli indiscussi padri dell’archeologia siciliana e a lui sono legate scoperte e studi che hanno arricchito il mondo antico. Docente all’Ateneo di Palermo, soprintendente ai Beni culturali della Sicilia occidentale nel 1963, ha scavato a Solunto, a Mozia, a Marsala oltre che nel sito di Selinunte. Ha scoperto anche la statua del giovinetto di Mozia durante una campagna di scavi diretta da Gioacchino Falsone nel 1979 ma il suo nome resterà per sempre legato alla storia del Parco archeologico di Selinunte, Cave di Cusa e Pantelleria dove le sue ceneri riposano in un sacello. Un simbolo dell’amore di una vita per l’archeologia da parte di un uomo che ha lasciato il segno in coloro che hanno lavorato con lui.

«Era spinto da una curiosità sfrenata – racconta Francesca Spatafora, già direttrice del museo Salinas e del parco di Himera, Solunto e Monte Jato – Era convinto che bisognasse sempre rimettere in discussione le certezze, anche quelle scientifiche, e cambiare idea se necessario. Io lo conobbi da studentessa sui banchi dell’università di Palermo, era il 1974, poi nell’83 entrai nella Soprintendenza da lui diretta e con lui ho lavorato condividendo una grande passione per la ricerca e il patrimonio, la stessa che ha condiviso con tutti coloro che lo hanno conosciuto. È grazie a lui se ho scelto di intraprendere la carriera dell’archeologa spinta dal rispetto che aveva per un mestiere che era anche un impegno civile a difesa del patrimonio».

Tusa aveva dato vita a quello che chiamavano il "collettivo delle attività puniche", un gruppo di studenti e studiosi che si davano appuntamento a casa sua. «Lui dedicava ai suoi studenti tempo e lavoro senza limiti – ricorda l’archeologa – senza confini. Anche fuori dalle aule o dalle nostre riunioni. Indelebili nel mio ricordo sono le gite a Gibellina e le conversazioni così ricche di stimoli tra Vincenzo e Ludovico Corrao, sperimentando un nuovo approccio al tema della ricostruzione post-sismica». Alla fine degli anni Settanta, come ricorda Spatafora, era diffuso un clima di dissenso nei confronti dell’archeologia ufficiale che iniziava a maturare proprio con uomini come lui capace di formare nei giovani una coscienza libera nel pensiero e nello studio di una disciplina che cambiava come la società. Tanti gli aneddoti legati al suo desiderio di conoscenza. L’archeologo Michele Campisi ricorda come nel 1985 dovette accompagnarlo, su richiesta di Antonino Di Vita, al Museo nazionale di Atene.

«Vivevo presso la Scuola archeologica di Odos Parthenonos e lui era nostro ospite – racconta – Quella mattina andammo in museo e non per ammirarne statue e corredi ma con un appuntamento preciso, "dare un’occhiata alle cassette che Schliemann aveva portato via da Troia". L’emozione per noi fu grande, più per me che ancora non riuscivo a distinguere le finalità conoscitive di Tusa da quelle strettamente emozionali legate al fatto di trovarsi davanti ad un passo decisivo della storia archeologica. Oggi quei cocci di Schliemann insieme a Vincenzo Tusa mi sembrano ancor più ricchi di significato». Probabilmente Tusa cercava i confronti tra la ceramica anatolica ed elima poiché era convinto della provenienza troiana del sito siciliano, secondo quanto tramandato da Tucidide.

Capace sempre di stupirsi come ricorda Giuseppe Castellana, già direttore del museo Pietro Griffo di Agrigento: «Nel 1979 ero borsista alla Soprintendenza di Palermo. Tusa mi volle onorare con la direzione dello scavo della necropoli punica di corso Pisani Vivai Gitto: era generoso e capace di infondere grande fiducia. Veniva di tanto in tanto ad Agrigento a tenere lezioni a Villa Genuardi. Ricordo una sua visita al parco della Grotta Zubbia a Palma di Montechiaro, fu entusiasta davanti a un luogo tanto intatto. Era un gentiluomo, capace di dire cose interessantissime in poche battute».

Dedicò lavoro e amore a tanti siti della Sicilia ma Selinunte restò nel suo cuore e lì trascorreva le sue giornate lavorative attorniato dalla famiglia, dai collaboratori, dai suoi amici. Chiamava i gelsi rossi di Selinunte "le lacrime di Priamo" come ricorda Piero Violante, anch’egli legato all’archeologo e ai suoi insegnamenti. Quella Selinunte che portava nel cuore come ricorda anche Antonio Barone, oggi responsabile della Rotta dei fenici, che da giovanissimo correva dietro Tusa insieme al figlio Sebastiano tra i resti millenari di Selinunte, a pochi passi da Marinella: «Trasmetteva la gioia dell’archeologia e il desiderio della scoperta».

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