Io ho molto rispetto della Lamborghini di Fedez. Se l'è comprata con i guadagni del suo lavoro e non con l'assegno di papà o mamma, e se cresci a Rozzano, Milano sud, giustamente non hai ansie pauperiste, casomai rivincite controculturali, ti compri la macchina dei sogni anche se non hai fatto il Settantasette, perché conosci il "diritto al lusso" senza aver letto Deleuze-Guattari o aver bevuto una birra sotto i portici con Bifo Berardi.
Fedez è un tipo interessante. Fa il cantante ma fino a un certo punto. Se negli anni Novanta l'anello di congiunzione tra impegno e spettacolo era il grande boh di Jovanotti, l'unica grande chiesa da Che Guevara a madre Teresa, l'evoluzione della specie è Fedez che non è più figlio del riflusso come Lorenzo, bensì del riflusso del riflusso, dunque non sa che farsene dell'ecumenismo e del trasversalismo, vuole dividere, la sua parrocchia va da Kim Kardashian ad Alessandro Di Battista, farsi vedere e schierarsi sempre, pure quando non ne sai troppo, pure se fai la figura del matto del bar che ti spiega il complotto del Bilderberg, pure se scrivi l'inno ufficiale del Movimento 5 stelle ("Non sono partito", Fedez 2014) e ne esce un editoriale di Travaglio in versione rap – un inferno in terra, una distopia, direbbe Fedez, a lui piace molto la parola distopia, la usa spesso – e ascoltare l'inno due volte di seguito fa l'effetto della cura Ludovico di Arancia meccanica, lì scattava il ripudio della violenza e qui invece il ripudio dell'intelligenza. Fedez scrive l'inno grillino perché è uno che interrogato sulla sua militanza dice: "Con la politica di palazzo non ho grandi relazioni, credo che quando la politica diventa di palazzo viene corrotta nel suo animo". E capisci che, sebbene abbia preso le distanze dall'ultimo Movimento, Toninelli può ancora riconoscersi nel suo magistero.
Con la Lamborghini Fedez è andato a distribuire buste da mille euro in giro per Milano, inventandosi uno spudorato e osceno format di beneficenza, gli Hunger games della bontà. Fermi un bencapitato e gli offri la svolta del mese: toh, godi proletario, sorridi, sei su candid fedez. Fabio Volo, figlio di un fornaio di Brescia, riflussista vecchio stile, ma con un dna che gli impedisce di apprezzare fino in fondo lo sganciamento di lavoro e reddito, si è molto indignato e l'ha criticato in radio. Fedez ha replicato con un video, e come se no?: ehi bello, ho sganciato 100 mila euro per il fondo lavoratori dello spettacolo, tu che hai fatto? Insomma, gli ha dato dello spilorcio. Perché Fedez è così: lui ha cacciato di tasca sua e ora chi lo vuole criticare deve fare come minimo lo stesso e poi parlare. Lui dà da mangiare al popolo con i fatti, mica a chiacchiere rivoluzionarie. Il business model del servire il popolo è cambiato. Se i katanga di Capanna contestavano la ricchezza buttando le uova sulle pellicce delle sciure milanesi alla prima della Scala e i loro fratelli minori si prendevano la ricchezza prelevando le pellicce dalle vetrine sfondate con la spesa proletaria, l'extraparlamentare del 2020 Fedez redistribuisce la ricchezza facendosi dare la pelliccia dallo sponsor e poi regalandola alla commessa dell'Esselunga che aspetta il bus alla fermata, quindi strimmando tutto (lui dice così, da streaming) nel suo bosco di Sherwood, la diretta social.
Fedez trasforma in business tutto quello che tocca. Ma non si accontenta di farci denaro. Ci fa sopra politica, perché la politica questo è oggi, mica le mozioni in Parlamento. Il personale è politico, non lo dicevano pure le femministe e gli indiani metropolitani? Ebbene, su Instagram hanno vinto loro. Pure la politica torna business. Al gradino più basso del nuovo circuito del valore vendi le creme sui social. Al più alto, quello di Fedez, vendi il format di te stesso e famiglia e ti pagano benissimo. Buon per lui. Ma ciò che lo rende particolare è che a Fedez non basta essere rich from Rozzano. Fedez vende, intraprende, sponsorizza, conduce ma ha ancora la saltuaria ambizione di rimarcare la sua discendenza anti-sistema (mica l'ha scritto per soldi l'inno "Non sono partito"), ricorda sempre che lui viene dal circuito dei centri sociali (traduzione concreta: ha fatto qualche concerto in spazi occupati quando ancora non se lo filava nessuno), e la sua distorsione dei tic dell'ultrasinistra è un crudele contrappasso, sta lì a dimostrare che nell'album di famiglia c'è spazio pure per la foto del grillismo alla Fedez e dell'antimperialismo alla Di Battista. Fa male. Rovina un po' i sogni di tre generazioni di giovinezza, ma tocca riconoscere che Fedez non nasce dal nulla e persino quei post-millenial convinti che la storia del mondo sia cominciata con l'apertura del loro profilo Instagram hanno antenati e padri più o meno degeneri cui hanno rubato il mestiere.
Fedez ha vinto la battaglia con la coscienza ideologica e quindi la battaglia dell'esistenza. Sta con il San Raffaele e con la sanità pubblica, con l'acqua bene comune e con l'acqua in bottiglietta a 8 euro griffata dalla brillante consorte, è mainstream ma anche contro, se si nota di più o se si strimma meglio. E per contestare il mainstream a Fedez non serve più fare i convegni sulla repressione a Bologna con Sartre, basta l'album con Dj Ax, Comunisti col Rolex, perché la sinistra ufficiale gli sta sul gozzo come a tutta la sua genìa e la Lamborghini se l'è comprata facendo il giudice a X Factor mica prendendo la tessera alla sezione di Rozzano, ammesso che ancora ci sia. Vagli a dare torto.
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