L’impero colpisce ancora. Si potrebbe riassumere così il tono generale dei commenti che hanno accompagnato ieri l’inaugurazione dell’Humboldt Forum di Berlino. Persino il sottosegretario agli Esteri, Niels Annen (Spd) ha twittato di essere “contento di non guardare dal mio ufficio il Castello degli Hohenzollern. La ricostruzione di un simbolo del militarismo prussiano non è all’altezza dei nostri tempi. Spero che il Forum riuscirà ad incidere al di là della facciata”. Il ministero degli Esteri è a un passo dall’edificio barocco risorto nel cuore di Berlino che sin dagli esordi ha suscitato gigantesche polemiche e spaccato la Germania.
Costato 677 milioni di euro, ispirato al grande esploratore e naturalista tedesco, al “misuratore del mondo” Alexander von Humboldt, il progetto è stato contestato sin dagli esordi. Semplificando, è stato accompagnato in quasi due decenni da tre grandi filoni di critiche. All’inizio è stato salutato da molti come un atto di rappresaglia. Nel 2002 il Bundestag decise di ricostruire il Castello degli Hohenzollern sulle macerie del Palast der Republik della vecchia Germania comunista che ne era stato sempre il simbolo dell’ipocrisia – ospitava il Parlamento – e che i berlinesi avevano ribattezzato “il negozio di lampade di Honecker” per le sue grandi vetrate arancioni, la miriade di lampadari e la goffa grandeur. Nel 1950 il Palast era stato costruito a sua volta al posto del vecchio castello degli Hohenzollern, della famiglia reale della Prussia e del Kaiserreich, della Germania unificata nel 1871.
Il palazzo dell’architetto barocco Andreas Schlueter era uscito malconcio dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Ma il neonato regime di Ulbricht aveva deciso di cancellare per sempre dalla fisionomia urbana quel simbolo dell’assolutismo prussiano e dell’imperialismo tedesco, radendolo al suolo. Quando la Bundesrepublik riunificata decise quasi vent’anni fa di abbattere il Palast der Republik, anche perché infestato dall’amianto, molti lo interpretarono come l’ennesimo atto di cancellazione della Ddr, obiettarono che il “negozio di lampade” dei bonzi comunisti avrebbe potuto rimanere lì’, anche come monito alle generazioni future. E invece.
Durante l’inaugurazione virtuale di ieri sera, la ministra della cultura Monika Gruetters ha ricordato lo spirito dei fratelli Humboldt, “l’avvicinamento all’estraneo, è in questo che essi furono pionieri e modello”. E nell’”avvicinarsi ai popoli, nell’ideale di un dialogo tra eguali”. Il museo – ancora vuoto causa pandemia – ospiterà una mostra permanente su Berlino, il “Laboratorio Humboldt” dedicato alla scienza, ma soprattutto circa 20mila oggetti provenienti dall’Africa, dall’Asia, dall’Oceania e dall’America, trasferiti dal Museo Etnologico e dal Museo d’Arte Asiatica della capitale.
Purtroppo, però, il castello risorto di fronte all’Isola dei musei. su Unter den Linden, non è stato percepito, come nell’auspicio del curatore della parte berlinese del museo, Paul Spies, come “un ponte tra la cultura di Berlino e le culture del mondo”. Ma come il simbolo dell’era del colonialismo e delle missioni predatorie dei prussiani e dei tedeschi. Di un periodo che per quasi un secolo è stato tinto di rosa: la Germania – come l’Italia – si è sempre crogiolata nell’illusione di aver inflitto ai Paesi occupati in Africa, in Asia e in Oceania un colonialismo meno crudele dei belgi, dei francesi e degli olandesi.
Ma al più tardi con il feroce dibattito nato nell’ultimo decennio sulla ferocia del colonialismo in Namibia, sul primo sterminio della storia – prima ancora di quello armeno – dei primi anni del Novecento ai danni delle minoranza namibiana dei Nama e degli Hutu, e sui veri e propri campi di sterminio nati nella colonia africana, quest’immagine è miseramente crollata. E ieri, davanti alla colossale facciata barocca, c’era anche una delegazione delle minoranze namibiane a protestare contro il Humboldt Forum. Secondo la curatrice Mahret Ifeoma Kupka il Forum “continua a mantenere viva una narrazione eurocentrica, come se ci fosse un ‘qui’ genuinamente tedesco, europeo, e un fuori diverso, che gli europei possono osservare curiosi e ben disposti”. Per Kupka il Forum “cancella totalmente realtà trasformative” che hanno profondamente cambiato l’Europa “come l’immigrazione e le disapore”. E’ un progetto “paternalistico”, secondo la curatrice.
L’ultimo scandalo che riguarda il Forum lo ha ricordato uno storico ed esperto di Africa come Juergen Zimmerer, a poche ore dall’inaugurazione: “che bomba dimenticarsi che nessuna restituzione è ancora ufficialmente sul tavolo”. Zimmerer stava rilanciando un tweet dell’ambasciatore nigeriano che lamentava di non aver ricevuto ancora alcuna risposta dal governo tedesco. Tra le opere che lo Stato africano reclama ci sono i famosi Bronzi di Benin. Ed è questo il terzo filone di critiche che ha accompagnato i lavori del Castello: il nodo delle restituzioni. Nel 2017 la storica Bénédicte Savoy si è dimessa dal Consiglio del Humboldt Forum con parole durissime, chiedendo un confronto “sincero” con 300 anni di collezionismo, affrontando “le porcate e le speranze” legate a quella storia, “perché noi siamo questo, questa è l’Europa”. E ha paragonato il Forum a Cernobyl, al sarcofago sotto il quale è nascosto a tutt’oggi il sito della centrale nucleare esplosa oltre trent’anni fa. Il grande rimosso del colonialismo, per Savoy, è “come le scorie radioattive che non devono mai penetrare all’esterno”.
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