Mourinho numeri alla mano: milleottocentonovantaquattro contro trecentonovanta. È con questa valutazione, contando i giorni in panchina del suo prossimo avversario Jürgen Klopp e rapportandoli ai suoi, che il tecnico portoghese introduce i "mind games" della vigilia di Liverpool-Tottenham (stasera su Sky alle 21): "E non venitemi a parlare di bollettino di guerra per gli infortunati dei Reds!". Se ha ragione, allora l'unico vero assente per Klopp sarebbe Van Dijk, non Diogo Jota né Thiago Alcantara, né Milner, Shaqiri, né eventualmente Keita e Matip. Insomma qualche guaio Klopp ce l'ha, anche se Mourinho minimizza. Quanto ai giorni in panchina, essi sono un fattore relativo. Si può comandare un gruppo da anni e perderlo proprio nel momento più importante. O, al contrario, essere di fresca nomina e scoprirsi imbattibili, già ampiamente strutturati. Dipende dalle tante variabili che il calcio non fa mai mancare ai suoi frequentatori seriali.
La classifica di Premier League
Mourinho è sempre lo stesso? Non esattamente. Qualcosa di nuovo c'è. E se vogliamo è cosa vecchia. Ha ritrovato la solidità che lo faceva spiccare ai tempi del "triplete", si è reso conto di non essere poi tanto superato, come qualcuno diceva. Ha sconfessato coloro che lo avevano già tumulato. Liverpool e Tottenham guidano appaiate la classifica della Premier, con i londinesi in vantaggio nella differenza reti (+14 contro +9): hanno perso una volta, più chiassosa la sconfitta dei Reds contro l'Aston Villa (7-2), lontanissima quella degli Spurs (in casa alla prima giornata contro l'Everton di Ancelotti). Un punto le separa dal Leicester di Rodgers, appena due dal Southampton, tre dal Chelsea, più indietro, ma con una partita in meno, United e City. L'andatura delle capoliste non è spaventosa. Nelle ultime cinque partite il Liverpool ha pareggiato tre volte, due il Tottenham. Non sono corazzate, non ancora. E le altre non volano.
Anche Reds e Spurs pagano gli allenamenti scarsi e necessariamente blandi, l'ansia agonistica di una stagione compressa fra pandemia e futuri Europei, in un incastro asfissiante. Giocano con stili diversi ma, come incantati da un richiamo misterioso in totale sincronia, Klopp e Mourinho si stanno geneticamente modificando. E così facendo rischiano per paradosso di somigliarsi. C'è un che di coraggioso che sta passando Klopp a Mourinho e una prudenza che il portoghese sta trasmettendo al tedesco. Hanno entrambi rivisto parte del loro credo per adattarsi ai tempi, alle ristrettezze culturali e fisiche del calcio dai calendari sempre più strozzati. Il Liverpool corre di meno, un po' come il CIty di Guardiola, i suoi pressing sono meno esaltanti e collettivi. Più offensivo è invece Mourinho, che può adesso contare su spinte mai avute sulle fasce, come Reguilon, uno degli esterni sinistri bassi più forti del mondo con Angelino, Alphonso Davis e forse Theo Hernandez, eredi multiformi del patrimonio tecnico di Jordi Alba e Marcelo.
Se il Liverpool sconta la sua stessa grandezza, evidenziata con dirompente superiorità nelle scorse due stagioni, dove pure aveva già iniziato a cedere sotto il profilo qualitativo, il Tottenham sta oggi individuando nuove strade espressive, sostenuto dalla spaventosa efficienza dei suoi due punti fermi offensivi (Kane e Son, 19 reti in due finora) e da un centrocampo in cui serve più la brillantezza operaia di Sissoko di qualunque estro, mentre a è a Guardiola che Mourinho deve la consacrazione, ormai compiuta, del danese Hojbjerg, scoperto da Pep ai tempi del Bayern: oggi è uno dei centrocampisti più forti in circolazione, completo (se avesse anche l'istinto del gol sarebbe un marziano). Il Tottenham può anche contare su Bale, che parte sempre dalla panchina, cui dà lustro accanto a numeri uno come Lo Celso e Dele Alli, il sacrificato del momento.
La storia fra le due squadre è meno eclatante rispetto ad altre rivalità inglesi. Spicca però la finale di Champions del 2019, quando il Liverpool prevalse con un rigore di Salah dopo due minuti e una rete nel finale di Origi. Partita che sarebbe pochi mesi dopo costata la panchina a Pochettino. Mourinho al posto dell'argentino sembrava una soluzione anacronistica. Il tempo, le batoste, i ragionamenti, anche l'umiltà, trovata per strada dopo tutti quegli anni di protervia, magari solo apparente, hanno reso Mourinho un uomo diverso, più semplice anche nel modellare il gruppo, cui chiede esattamente ciò che esso può dare, senza imporre a divinis regole di comportamento tattico. Il Tottenham non si spaventa mai. Un anno fa poteva succedere. Se non porta a casa una partita, come è successo nel weekend scorso in casa del Crystal Palace, match che sembrava vinto e invece no, il Tottenham non smette di lavorare sulla propria autostima. Anche se, di norma, un po' cede nei secondi tempi. Mourinho non si adatta più all'avversario ma aspetta che siano gli altri, eventualmente, a modificarsi perché dall'altra parte ci sonoi suoi, quelli "bianchi". Per questo il Liverpool dell'ultimora, vagamente rattrappito a causa dell'assenza di Van Dijk, ossia dell'uomo che non solo sapeva difendere quasi da solo ma soprattutto sapeva infondere a tutti i compagni quella sicurezza da cui far scaturire la naturale aggressività da metà campo in su, deve temere. E il Tottenham potrebbe anche avere la superiorità a centrocampo.
In più ad Anfield c'è la Kop a mezzo servizio: una desolata collezione di migliaia di seggiolini senza padrone intervallati da duemila esseri umani. Solo duemila persone infatti, come contro i Wolves, saranno ammesse stasera allo stadio dal "Tier 2" in cui rientra la città di Liverpool. Canteranno più intimamente "You'll never walk alone". Magari dedicandola Houiller, ex tecnico francese dei Reds scomparso tre giorni fa. E nessuno stadio può trasmettere l'assenza di pubblico, quello vero, quello che riempie, come Anfield. Perché la presenza lì, più che altrove, è qualcosa di assolutamente indescrivibile.
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