Casa. L'immagine di questa parola, come qualsiasi altro fascio di luce che colpisce la retina, è appena entrata nel vostro cervello raggiungendo la corteccia occipitale. Poi l'informazione è passata nel lobo temporale, ovvero nella sua regione più interna, il giro fusiforme, un'area che si attiva per molti altri stimoli visivi, come i volti, e dove avrebbero sede anche i circuiti neurali che identificano le lettere e le compongono in unità di dimensione maggiore: le parole. Probabilmente è qui, con il coinvolgimento di altre aree del lobo temporale, che il vostro cervello ha estratto il significato della parola "casa". Il tutto in cinquanta millisecondi e senza che ne abbiate avuta alcuna consapevolezza, visto che davanti a una serie di lettere il cervello umano non può fare a meno di leggere.
Da dove viene questa nostra abilità di lettori? È innata? Siamo la sola specie a possederla? A queste e altre domande risponde Neuropsicologia della lettura (Carocci, pp. 116, euro 12) di Davide Crepaldi, docente di Neuroscienze cognitive alla Sissa di Trieste, dove dirige il laboratorio di lettura, linguaggio e apprendimento. Considerando che leggiamo a una velocità media di 240 parole al minuto, il libro si finisce in circa 123 minuti. Per la Divina commedia ce ne vogliono 290: nemmeno cinque ore. E la cosa interessante è che, a fronte di tanta efficienza, il nostro cervello non sembra avere una predisposizione biologica alla lettura, a differenza di quello che accade per il linguaggio orale. "La capacità di esprimerci verbalmente è emersa nell'arco di millenni di evoluzione, sulla base di mutazioni genetiche casuali che poi sono entrate stabilmente nel nostro Dna" spiega Crepaldi. "Quindi Homo sapiens oggi è dotato di specifiche aree cerebrali dedicate al linguaggio orale. Il linguaggio scritto invece non ce le ha. Perché non è una proprietà biologica selezionata dall'evoluzione, ma un'invenzione culturale".
Non esiste un'area cerebrale dedicata alla lettura: ma allora come fa il cervello a decodificare "casa" in cinquanta millisecondi? Gli scienziati lo chiamano riciclaggio neurale: quando il bambino comincia a leggere, il suo cervello recluta qui e là dei circuiti che si adattano bene a questo scopo. Si tratta soprattutto di circuiti deputati alla vista, che poco hanno a che vedere con le strutture che processano il linguaggio. Significa, in sostanza, che la capacità di leggere è quasi del tutto indipendente da quella di parlare.
"Ecco perché esistono pazienti con una forte compromissione del linguaggio orale che non hanno disturbi in quello scritto" spiega Crepaldi. Ed ecco perché a parlare si impara da soli, mentre a leggere no. "Anche se questo è vero fino a un certo punto. Sono noti casi di bambini che imparano a leggere e scrivere spontaneamente, senza alcuna istruzione formale. E ci sono studi che attestano che il cervello familiarizza con la scrittura prima di impararla".
Un team di neuroscienziati dell'Università di Lovanio, in Belgio, ha dimostrato che i bambini di età prescolare sanno benissimo che aspetto ha una parola scritta nella loro lingua. Quelli italiani, per dire, sanno che "pillo" potrebbe essere italiano mentre "xtpq" probabilmente non lo è. Come è possibile? "Se leggere non è una proprietà biologica, ciò non significa che il nostro cervello non sia fortemente predisposto a farlo" spiega Crepaldi. "Inoltre, tutti i sistemi di scrittura sono stati progettati per essere facilmente analizzabili dal sistema visivo".
Per esempio, sappiamo che il sistema visivo si basa fondamentalmente su linee orientate (verticali, orizzontali, inclinate), e infatti le lettere sono tutte combinazioni di linee orientate; sappiamo che è molto sensibile agli "spigoli" che uniscono queste linee, e infatti le lettere si distinguono principalmente sulla base di questi spigoli. Tutto questo implica un'affascinante domanda: se i circuiti cerebrali della lettura sono di natura visiva, non linguistica, allora anche le specie che non padroneggiano il linguaggio potrebbero imparare a leggere? Degli scienziati dell'Università di Marsiglia sono riusciti a insegnare a un gruppo di babbuini a riconoscere (visivamente) da 87 a 308 parole. Più interessante ancora, una volta acquisita dimestichezza, i babbuini tendevano a confondersi soprattutto su parole inesistenti ma similissime a parole reali (per esempio hafe, che somiglia a have). Significa che non si limitavano a ricordare stringhe di lettere: cercavano anche di astrarne una struttura tipica, che poi mettevano a confronto con quella delle parole target, per decidere se erano o meno parole "reali".
Crepaldi racconta un interessante retroscena di questo studio: "Una volta ottenuti risultati così significativi l'équipe francese avrebbe potuto spingersi oltre, impiantando degli elettrodi nel cervello dei babbuini per capire come avviene il riconoscimento delle parole a livello di singoli neuroni. Si tratta di metodiche invasive, che sulle persone non possono essere usate, ma sugli animali, teoricamente, sì. I ricercatori però hanno rinunciato per ragioni etiche, anche se la posta scientifica in gioco era molto alta".
Attualmente, infatti, la metodica di indagine più precisa che possiamo usare sul cervello umano (la risonanza magnetica funzionale per immagini) arriva a vedere al massimo un millimetro cubo di tessuto cerebrale, che però contiene decine di migliaia di neuroni. Vedendo più nel dettaglio, invece, potremmo sapere effettivamente come fa il cervello a riconoscere le parole. "Noi ci aspettiamo che ci sia una sorta di gerarchia tra neuroni. Cioè un neurone che codifica per la lettera a, un altro per la b, eccetera, poi l'informazione passa ai neuroni che codificano per coppie di lettere, sempre più su, fino a quelli che codificano per parole intere". Insomma, le potenzialità di scoperta a partire dal modello animale sono infinite. Per quanto riguarda la clinica, per esempio, andare a fondo nei meccanismi della lettura potrebbe aiutarci a capire meglio la dislessia, che Crepaldi definisce "l'ombra perenne nel panorama mentale degli insegnanti e dei genitori".
In effetti, stando ai dati del Ministero dell'istruzione, dal 2010 le certificazioni di dislessia sono passate da 94 mila e 177 mila: è un tasso di crescita che sfiora il 90 per cento. Il disturbo comporta una difficoltà nel leggere ad alta voce, ovvero nel tradurre i grafemi in fonemi, il che, nella maggior parte dei casi, non implica nulla sul piano della comprensione. Ma come si spiega una simile esplosione di diagnosi negli ultimi anni? Secondo Crepaldi, i bambini che chiamiamo dislessici in base ai criteri diagnostici attuali non sono altro che i bambini con peggiori performance di lettura: "Sta a noi decidere dove fissare la soglia di "normalità", ma possiamo dire che la dislessia esiste nello stesso senso in cui esistono dei pessimi corridori di maratone. Visto che la maggioranza dei bambini dislessici capisce benissimo ciò che legge, il consiglio per gli insegnanti è di non costringerli a leggere ad alta voce. Poi, visto che esistono almeno venti profili diversi di dislessia, è cruciale avere una diagnosi su misura, in modo da costruire un percorso di sostegno adeguato".
Sul Venerdì dell'11 dicembre 2020
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