Rebecca Makkai, la rivista polacca di libri più popolare, Ksiazki, ha scelto il suo romanzo come libro dell’anno. Che impressione le fa?
“Ne sono felice, sono convinta di essere nata per scrivere”.
Nata per scrivere?.
“Credo davvero che essere scrittrice sia scritto nel mio destino. Il mio cervello crea costantemente qualcosa: immagini, scene, dialoghi. L’immaginazione non smette mai di lavorare. Non importa se sto passeggiando, se vado in un negozio o a prendere i figli a scuola: la mia testa continua a raccontarmi storie, a inventare. Devo ammettere che questa cosa mi facilita la vita. La realtà mi arriva come attraverso un filtro, sto tutto il tempo dentro a qualche narrazione”.
Non deve essere facile gestire questo caos sulla carta.
“Al contrario. Una volta che apro il computer e mi metto a scrivere, il lavoro procede rapidamente e senza intoppi. Tutto quello che mi è venuto in mente durante la giornata, nel corso delle più quotidiane delle attività, dal passeggiare al preparare il caffè, comincia a scaturire a un ritmo vertiginoso. Certo, opportunamente rielaborato. Non ho momenti morti. Insegno anche scrittura creativa e spiego sempre ai miei studenti che redigere un testo non è la stessa cosa che scrivere, che questo processo si verifica in noi prima della stesura. Mi capita spesso di ricevere dei quadernetti o dei notes per appuntare le idee, ma alla fine non li uso mai. Il cervello è il miglior taccuino. Da anni vivo in due mondi: quello reale e quello che creo e descrivo”.
Saprebbe indicare il momento in cui ha sentito o ha capito di essere nata proprio per questo?
“Mio padre era un poeta e sua madre una scrittrice. Mia madre, invece è una professoressa e nel corso degli anni ha scritto diversi libri scientifici. Fin da bambina sapevo che le persone scrivono di professione. Avevo 13 o 14 anni quando ho detto per la prima volta ad alta voce la frase: ‘Farò la scrittrice’. E non mi sono affatto sorpresa a sentirmelo dire. Avevo già iniziato prima con delle piccole prove di scrittura. Come molti adolescenti mi esercitavo nella poesia e nel racconto breve. Ho scritto alcune storie tristi sulla disperazione della vita, ma non erano in grado di commuovere neppure me. Sono rimasta delusa, ma questa cosa mi ha fatto bene. Chissà, forse ho capito prima degli altri aspiranti scrittori che quello che avevo scritto sarebbe risultato insopportabile per un lettore. Non ho ceduto all’autocompiacimento come accadeva ai miei coetanei. Scrivevano poesie, scattavano una foto in bianco e nero del loro spazzolino da denti e dicevano ‘Ecco, questa è arte, sarò un artista’. Anche se sono cresciuta in un ambiente in cui praticamente scrivevano tutti, non ho avvertito alcuna forma di pressione. Insomma, nessuno si aspettava da me che intraprendessi la carriera letteraria. Mia sorella, per esempio, è diventata musicista, oggi insegna pianoforte. Negli Stati Uniti, quando sei figlio di immigrati, quando appartieni alla prima generazione nata in questo paese, senti spesso dai tuoi genitori che dovresti diventare un avvocato o un medico. Che dovresti trovarti un lavoro ottimamente retribuito per poter mantenere la famiglia. Le paure del passato si fanno sentire e i genitori le riflettono sui figli. A me queste cose in testa non le hanno messe, forse perché mio padre se la cavava benissimo nel nuovo paese come poeta. Ogni tanto mi capita di essere ospite di incontri o tavole rotonde dedicate alla prima generazione di scrittori nati negli Stati Uniti. Mi stupisco sempre di essere una dei pochi che, per intraprendere questa professione, non hanno dovuto disobbedire ai propri genitori”.
Quando ha sentito che scrivere le procurava soddisfazione?
“Mai? Forse sto cominciando appena a provarne. Ci sono dei momenti in cui mi sento soddisfatta di quello che ho scritto. Ma devo ammettere che preferisco quei momenti, magari un anno o due dopo la pubblicazione, quando il libro che ho scritto smette di piacermi, o magari comincia pure a darmi fastidio. Perché questo significa che sono cambiata e sto crescendo, che noto le mie imperfezioni e voglio scrivere ancora meglio. Oggi, due anni dopo l’uscita americana di The Great Believers, devo riconoscere di essere soddisfatta solo di pochi capitoli. La mia posizione, forse non molto popolare in un mondo in cui i debuttanti ricevono spesso ricchi anticipi, è che uno scrittore non dovrebbe provare soddisfazione per il proprio lavoro. Perché l’autocompiacimento, prima o poi, potrebbe impedirgli si migliorarsi. Mi permetto giusto qualche breve momento di gioia. Per esempio quando un mio libro viene acquistato dall’editore, quando viene pubblicato, se riceve delle buone recensioni o piace ai lettori. Ma non bisogna farsi ingannare dall’autocompiacimento. Essere uno scrittore significa avere continui dubbi. Tre ingredienti in uno: predestinazione, tormento, sfida”.
Ha dei maestri?
“Cerco di non copiare nessuno, non creo il mondo dei miei romanzi basandomi su ciò che è riuscito agli altri. Anche se ci sono due scrittori a cui devo molto. Li ammiro per come raccontano e costruiscono i personaggi, per come sono capaci di tirare fuori da loro le cose essenziali. La prima è Alice Munro, maestra nell’arte del racconto, nel creare un’atmosfera, abilissima ritrattista. E subito dopo viene Vladimir Nabokov: vorrei essere in grado di costruire come lui delle narrazioni così magistrali”.
Lei stessa ha definito The Great Believers un romanzo decisivo. Ci racconta come è nato?
“Inizialmente non avevo intenzione di scrivere una storia sull’epidemia dell’Aids negli Stati Uniti degli anni Ottanta. Stavo invece progettando un libro che doveva svolgersi nel mondo degli artisti tra gli ultimi anni del XX secolo e il decennio precedente. Stavo cercando un modo per condurre in sicurezza i miei lettori attraverso questi due periodi, quando è nata l’idea di un personaggio più anziano che racconta eventi del passato. Questo personaggio è poi entrato a far parte di The Great Believers. Con il tempo mi sono resa conto che l’argomento del mio libro doveva essere diverso e che se la parte principale dell’azione si sarebbe svolta a Chicago intorno al 1985, avrei dovuto concentrarmi principalmente sullo scoppio dell’epidemia. Chicago è la città statunitense che mi è più vicina, ci abito, vengo dall’Illinois. Fino ad ora, nel cinema o nella letteratura, quando si trattava di descrivere l’epidemia dell’Aids apparivano piuttosto New York e San Francisco. Eppure Chicago, a quei tempi, aveva una comunità lgbtq + altrettanto numerosa. E ha pagato all’epidemia un tributo altrettanto numeroso in termini di vite umane. Così ho iniziato a trattare questo libro in modo molto personale. Sapevo che The Great Believers sarebbe stato un libro completamente diverso dai due precedenti, anche e soprattutto da un punto di vista tecnico. Ho dovuto puntare sull’iperrealismo, quando prima creavo mondi simili a quelli dei film di Wes Anderson, cioè inventavo a più non posso. Scrivendo una storia sull’epidemia dell’Aids tutto doveva essere autentico quasi fino all’esagerazione, anche a livello psicologico. Ho dovuto imparare a descrivere il corpo umano, il suo comportamento nella malattia, le reazioni ai violenti impulsi. Ho dovuto creare una nuova scala emotiva, dai momenti di gioia all’enorme paura che si manifestava alla presenza di un avversario fino a quel momento sconosciuto. Ero consapevole che non mi sarei potuta permettere di esagerare, perché avrei rischiato il ridicolo”.
Ha deciso di scrivere di un mondo che ricorda a malapena: aveva sette anni quando è scoppiata l’epidemia.
“Attraverso questo libro ho varcato molti altri confini. Sono una donna bianca, scrivo di uomini che appartengono anche a minoranze etniche, sono eterosessuale e scrivo di omosessuali, di Aids. Le sfide erano tante, ma la più grande si è rivelata essere colmare il gap generazionale, è stato molto difficile. Considerato il peso della tematica che avevo deciso di affrontare, non potevo permettermi il minimo errore nella trattazione dei fatti e dei dati della realtà. Per qualche stupido sbaglio qualcuno avrebbe potuto mettere in dubbio la storia che avevo narrato”.
Com’è stata la fase di ricerca e di raccolta del materiale?
“Ho messo mano alla stampa della comunità gay degli anni Ottanta, ho studiato molti documenti, letto memorie. Ho passato mesi a parlare con persone che ricordavano bene quei tempi, cercando di apprendere quello che sapevano, di memorizzare in particolare i dettagli. Ci è voluto molto tempo per comprendere quale fosse l’atmosfera che dominava durante l’epidemia. Fino ad allora ero vissuta nella convinzione che con la comparsa dei test per rilevare la presenza dell’Hiv, verso la metà degli anni Ottanta, tutti avessero tirato un sospiro di sollievo, che questa cosa fosse stata una specie di benedizione. Questo perché guardavo a quei fatti dalla prospettiva di una persona che vive nel secondo decennio del 21° secolo. Ma a quei tempi risultare positivi al test equivaleva a una condanna, all’esclusione sociale. Non dobbiamo stupirci che molte persone avessero paura di sottoporsi al test, poiché risultare positivi comportava ulteriori sofferenze. Ci sono molte testimonianze di persone malate che perdevano il lavoro e gli amici mentre le compagnie assicurative facevano di tutto per evitare di coprire le cure mediche. Ho sentito di persone che rifiutavano di sottoporsi al test per paura di essere totalmente emarginate, di morire in povertà, nel dolore e nell’oblio. Erano anche molto diffuse le teorie complottiste sulla fuga di dati. Si temeva che il governo stesse preparando delle liste di malati simili a quelle che venivano stilate nei lager nazisti durante l’Olocausto. Ho dovuto apprendere molti particolati sulla vita quotidiana di quei tempi. Ad esempio, grazie a mio marito – che ha otto anni più di me – ho scoperto che lì dove in macchina ora c’è il porta bicchieri una volta erano installati dei portacenere. Si fumava ovunque. Penso che per molti giovani lettori sia una cosa difficile da immaginare”.
Qual è stata la reazione dell’ambiente lgbtq+ dopo l’uscita del suo romanzo?
“Molto positiva, addirittura entusiasta. Non mi aspettavo tante parole di apprezzamento e di ringraziamento. Quando è uscito il romanzo, avevo paura di come avrebbe reagito un mio amico, un omosessuale sessantenne di Chicago che ricorda molto bene quei tempi. Quando mi ha ringraziato per avere scritto una storia vera e onesta mi sono commossa. Dopo gli incontri con il pubblico, capitava spesso che si avvicinassero degli uomini della generazione precedente. Chiedendomi l’autografo mi dicevano che intendevano regalare il libro ai loro amici più giovani, perché potessero capire che cosa avevano passato e quanto è cambiato il mondo da quegli anni. Quante volte mi sono sentita dire: ‘Gliel’ho raccontato, ma non ha capito. So che il tuo libro lo aiuterà’”.
In Polonia e in molti altri paesi europei, il suo libro è stato pubblicato poco prima o durante la pandemia. Nelle recensioni e nei commenti si ripete spesso una frase tipo: “Makkai descrive perfettamente il processo di stigmatizzazione e gli effetti della pressione sociale, mostra come possono sentirsi i malati, i respinti, gli esclusi”.
“Sorprende quanto velocemente la storia si sia ripetuta, vero? Secondo me in quello che è accaduto di recente, e che sta ancora accadendo, risuona non solo un’eco dell’epidemia dell’Aids, ma anche della pandemia di Spagnola degli anni 1918-1920, così come di tutti i precedenti flagelli di cui sappiamo attraverso i libri. Non sono per niente scioccata da come reagiscono le persone. Se si fa caso a quali siano le persone più duramente colpite dal Covid-19 negli Stati Uniti, scopriamo che si tratta soprattutto di minoranze etniche: persone povere, emarginate, senza accesso alle cure mediche. La posizione di chi deteneva il potere si potrebbe sostanzialmente riassumere così: sta accadendo a chi vive peggio e lontano da noi, quindi non ci preoccupiamo più di tanto. Lo stesso atteggiamento dimostrato dall’amministrazione Reagan nei confronti dell’epidemia di Aids alla metà degli anni Ottanta. Per molto tempo non fu un suo problema, per lo meno non ufficialmente. Il punto, diciamocelo chiaramente, è che gli Stati Uniti ancora oggi non sono venuti a capo dell’epidemia dell’Aids. Ci sono oltre un milione di persone infette, soprattutto nel sud del paese, ma i media non vi prestano un’adeguata attenzione poiché il virus affligge in gran parte le povere comunità afroamericane e latinoamericane. Durante il tour promozionale del libro, ero sorpresa di scoprire che molti americani pensano che l’Aids sia sparito, che non ci sia più nulla da temere. Dal momento che esistono ormai dei farmaci per tenere sotto controllo la malattia e i ricchi, in qualche modo, riescono ad affrontarla, l’argomento ha perso rilevanza mediatica. Fino a quando il Coronavirus non ha messo in ginocchio l’America e i numeri della pandemia non hanno raggiunto livelli drammatici, la reazione è stata esattamente la stessa. Poi è iniziato il processo di stigmatizzazione ed esclusione dei malati. Dall’oggi al domani, a causa del virus, sono diventate persone peggiori. Il Covid è poi diventato un argomento politico. Tutto a causa di un presidente che di fronte al preoccupante aumento dei contagi minimizzava il pericolo. Trump si è rivelato un leader eccezionalmente inetto, uscendo totalmente sconfitto dal confronto con l’epidemia. Tutto quello che ha saputo fare è stato ridicolizzare le procedure e i timori della gente, un modo per sottrarsi alle proprie responsabilità. Grazie a lui i complottisti e le persone che considerano il Coronavirus una frottola, un’invenzione dei ricchi, hanno alzato la testa. Oggi se si esce in una strada americana con indosso una maglietta con la scritta ‘La scienza è verità’, si viene accusati di sostenere la sinistra, questa cosa viene recepita come una dichiarazione politica. Nel paese che ha mandato il primo uomo sulla Luna, metà della popolazione vota per un uomo che non crede ai cambiamenti climatici in corso! Quando è stata annunciata la vittoria di Biden, la nuova vicepresidente Kamala Harris ha detto: ‘Avete scelto di credere nella verità e nella scienza’. Non ha aggiunto nulla sulla religione, è un argomento troppo spinoso. Per quanto essenziale. I sondaggi preelettorali e le ricerche sociali hanno dimostrato che quanto più una persona è credente, tanto più rifiuta le risposte della scienza, insieme ai fondamenti della teoria darwiniana. Come può credere questa persona a una possibile distruzione del pianeta, se l’uomo – secondo le suo convinzioni – è stato creato e reso sovrano della Terra da un Dio che comunque veglia su di lui? Certo, tra i conservatori ci sono anche medici e figure importanti del mondo della scienza che riconoscono il progresso della civiltà e i rischi che comporta, ma la loro voce negli ultimi anni è stata offuscata dalla narrazione di Trump e dai fondamentalisti che lo seguono. Per questo ritengo che l’unico modo per riunire la nazione, per far incontrare le due Americhe, sia attraverso l’istruzione. È all’istruzione che ha fatto appello Biden nel suo discorso dopo l’annuncio dei risultati elettorali”.
La speranza è che Harris, che prima ha menzionato, eserciti un ruolo chiave in questo senso. Che sappia trovare un’idea per porre rimedio ai problemi dell’istruzione americana in modo che non sia più possibile sminuire l’autorità degli scienziati e delle loro scoperte. Guardando a quello che abbiamo vissuto nell’anno che, per fortuna, sta per concludersi, non ha anche lei l’impressione che in qualche modo avrà un posto di rilievo nella letteratura?
“Oggi non ne siamo pienamente consapevoli, ma sono convinta che il 2020 sarà un altro spartiacque storico. Proprio come lo sono stati il 1929, il 1945 o il 1968. Chi verrà dopo di noi ci giudicherà anche valutando quanto abbiamo fatto nel corso del 2020. Valuterà i cambiamenti che abbiamo introdotto traendo conclusioni dopo un anno di pandemia, gli errori e le leggerezze che non siamo stati in grado di evitare. Sono molto curiosa di conoscere l’arte che nascerà dopo il 2020, penso che dirà molto di più sui cambiamenti intercorsi nella nostra coscienza di quanto possiamo oggi immaginare”.
A cosa sta lavorando oggi, ai tempi della pandemia?
“Sto scrivendo un romanzo di ambientazione contemporanea, la cui trama si svolge prima dello scoppio della pandemia da Covid-19. È la storia di un uomo che ricorda alcuni eventi dei tempi delle scuole superiori e, anni dopo, deve affrontare la morte di una persona per lui importante. Scopre che la persona condannata per l’omicidio non è quella che ha commesso il crimine. Sarà un libro pieno di misteri e di motivi psicologici. Un libro molto diverso da quello che ha ottenuto in Polonia un riconoscimento addirittura imbarazzante”.
(Copyright Gazeta Wyborcza/Lena-Leading European Newspaper Alliance. Traduzione di Dario Prola)
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