MEDICI e infermieri non si contagiano solo in ospedale. A costituire invece un rilevante rischio di infezione da Sars-CoV-2 sono i contatti extra-ospedalieri, in casa o in giro per le faccende della vita di ogni giorno, una volta tolto il camice. Insomma, la vita dopo il lavoro. A dirlo è uno studio della Northwestern University di Chicago che ha guardato alla sieropositività da Sars-Cov-2 di 6.510 operatori sanitari, di cui 1.794 infermieri, 1.260 medici, 904 amministrativi e 2.552 membri del personale di 10 ospedali, 18 centri di assistenza immediata e 325 ambulatori di Chicago e aree limitrofe. Parte di un ampio studio sierologico di coorte chiamato «Northwestern Healthcare Worker SARS-CoV-2 Serology Study» e partito a maggio 2020, il lavoro è apparso su Open Forum Infectious Diseases.
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di
Stefano Celotto e Rita Sousanieh
E conclude che, in un sistema sanitario dotato di adeguati dispositivi di protezione individuale, lo stato sierologico del personale e di tutto lo staff è più strettamente associato all’esposizione cosiddetta di comunità rispetto ai contatti in ambiente sanitario.
"Siamo stati tra i primi a sottolineare questa problematica, già a inizio pandemia, lo scorso marzo, nel Journal of Hospital Infection", spiega Michele Riva, medico del lavoro dell’Università degli Studi di Milano Bicocca. Come confermano oggi i ricercatori di Chicago, "allora noi chiedevamo di non sottostimare il rischio derivante dai contatti extraospedalieri, in famiglia e tra amici, quelli che avvengono al di fuori della pratica clinica, ma anche dai contatti interprofessionali, quando i colleghi si incontrano per la pausa pranzo o durante i meeting per discutere insieme i casi".
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Questo porta in primo piano un problema strutturale degli ospedali italiani: "La riorganizzazione è avvenuta, ora i dispositivi di protezione non mancano più e si sta tutti più attenti ai percorsi puliti e sporchi – spiega Riva – ma resta la mancanza di spazi per il personale, sia degli studi medici sia degli spazi ristoro. Così aumenta il rischio per i lavoratori. È un problema evidente nelle epidemie influenzali. Un piano di ristrutturazione della sanità non può non tenere conto di questo aspetto".
Unica eccezione, secondo lo studio americano, sono gli infermieri alle prese con manovre ad altro rischio: per loro, il rischio sul lavoro è ancora preponderante. Un rischio più elevato per gli infermieri e il personale non medico emerge anche in una revisione appena apparsa sulla rivista degli anestesisti britannici, Anaesthesia. Anestesisti e medici di terapia intensiva, invece, nonostante la loro maggiore esposizione a pazienti Covid-19 e a procedure ad alto rischio, sembrano essere a minor rischio di infezione e malattia e anche il tasso di decessi è inferiore rispetto ai colleghi di altre discipline e alla popolazione generale. I tassi di infezione sono, appunto, significativamente più alti proprio negli infermieri di prima linea e nel personale addetto alle pulizie. Tanto che gli autori si chiedono quali siano le prassi o i dispositivi che proteggono i medici e se non sia opportuno estenderne l’uso anche agli altri lavoratori.
Capire come si contagiano gli operatori sanitari continua a essere una tremenda priorità: sono 249 i medici e 50 gli infermieri che in Italia hanno perso la vita a causa del Covid e i decessi non si arrestano.
Perché i sanitari continuano a morire sul lavoro? I dati della seconda ondata sono in fase di elaborazione, ma lo scenario che sta emergendo è quello descritto anche dallo studio americano: "L’alto numero di operatori infettati lo abbiamo visto nella prima fase a Bergamo e Brescia, lo si vede ora nel milanese e in Brianza: le infezioni del personale medico sanitario rispecchiano l’andamento della prevalenza nel territorio", spiega Michele Riva che sta studiando proprio i contagi nelle zone limitrofe agli ospedali e nei territori e che puntualizza come il rischio di trasmissione ospedaliera paziente-operatore continui comunque a esistere. Tuttavia, "a conferma dell’importanza del rischio ambientale extraprofessionale, c’è anche la distribuzione dei contagi negli ospedali, che è uniforme tra il personale dei vari reparti". Non ci sono cluster o focolai in reparti specifici.
Dunque, nonostante legittimamente i sanitari temano di portare a casa il virus, magari ai genitori anziani, sarebbe opportuno rivedere quel pregiudizio della prima ora che vedeva in loro il veicolo del contagio in società. Al contrario. Così "l’idea di predisporre alloggi per il personale medico sanitario non va letta unicamente, come è stato generalmente fatto, nell’ottica di proteggere i familiari a casa, ma soprattutto l’inverso, per mettere al riparo dal contagio i medici e gli infermieri anche quando cessano di lavorare".
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