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Le cicatrici invisibili e incalcolabili dei sopravvissuti alla pandemia di Bergamo

NEMBRO (BERGAMO) — Ogni lunedì sera, presso i locali parrocchiali di questa cittadina dell’Italia settentrionale che forse ha avuto la percentuale di morti da coronavirus più alta d’Europa, una psicologa specializzata in stress post-traumatico tiene sedute terapeutiche di gruppo.

“Ha curato sopravvissuti alla guerra”, dice di lei il sacerdote Matteo Cella, parroco di Nembro, in provincia di Bergamo. “Secondo lei, le dinamiche sono le stesse” aggiunge.

All’inizio, il virus ha infierito a Bergamo. Poi, è subentrata la psicosi traumatica. La provincia che per prima ha dato all’Occidente un’anteprima degli orrori in arrivo – anziani affamati d’ossigeno, ospedali presi d’assalto, convogli di camion pieni di bare che percorrevano strade sprangate e sigillate – oggi funge da inquietante cartolina dei postumi del trauma legato all’epidemia.

Nei piccoli centri, dove ci si conosce in tanti, c’è apprensione per le altre persone, ma vi sono anche senso di colpa per essere sopravvissuti, rabbia, ripensamenti per le decisioni funeste prese e incubi per i desideri rimasti insoddisfatti di chi stava morendo. Ovunque si respira profonda la preoccupazione che, con il riacutizzarsi dell’epidemia, l’enorme sacrificio pagato da Bergamo possa presto sparire nella storia, che i suoi piccoli centri urbani diventino campi di battaglia dimenticati della prima grande ondata, che i suoi morti restino semplici nomi incisi su una delle tante targhe arrugginite.

Più di ogni altra cosa, c’è la sensazione collettiva di iniziare a comprendere che il virus ha cambiato le persone. Non soltanto i loro anticorpi, ma proprio la loro natura.

Seduta distante dal padre e dalla sorella, sui gradini della casa di famiglia, Monia Cagnoni, 41 anni dice: “L’epidemia mi ha fatto diventare più chiusa. Voglio stare da sola più spesso”. Ha perso la madre per Covid e poi ha contratto la polmonite. Sua sorella Cinzia, 44 anni, che ha preparato caffè e torta in cucina, prova un impulso contrario: “Mai come oggi, ho voglia di stare in mezzo alla gente. Non mi piace stare da sola” dice.

La città di Bergamo, come qualsiasi altra ovunque, oggi è alle prese con la seconda ondata del virus. Il suo sacrificio, tuttavia, l’ha lasciata preparata meglio della maggior parte dei posti in quanto, a detta dei medici, il suo altissimo tasso di contagi durante la prima ondata ha dato una certa immunità a molti abitanti. Il personale sanitario, ormai esperto negli spiacevoli protocolli previsti dall’epidemia, accoglie pazienti che provengono da altre province per alleviare il carico degli ospedali presi d’assalto nelle vicinanze.

Anche se il contagio li minaccia di nuovo da fuori, le ferite della prima ondata li stanno ancora logorando dentro.

Parlare di queste cose non è facile per gli abitanti del cuore pulsante dell’industria italiana, gremito di fabbriche metalmeccaniche e tessili, cartiere, ciminiere che esalano fumo, e capannoni giganteschi. Preferiscono parlare di quanto lavorano. E, quasi scusandosi, rivelano che stanno soffrendo.

A Osio Sopra, un piccolo centro abitato, Sara Cagliani, 30 anni, non riesce a superare il fatto di non aver potuto esaudire l’ultimo desiderio del padre morente. Su un cartello, appeso al cancello di casa, si legge: “Qui vive un alpino”. Quando iniziò la crisi del coronavirus, suo padre Alberto Cagliani, 67 anni, si è messo a disposizione per dare una mano e ha detto alla figlia: “Ricorda, sono un alpino e nelle emergenze un alpino si fa avanti”.

Dopo essere andato in pensione come camionista, si era già offerto volontario per un’agenzia di pompe funebri: percorreva tutta la provincia, recuperava i corpi di chi rimaneva vittima di un incidente stradale e se ne occupava, lavandoli e rivestendoli con gli abiti consegnati dalle famiglie. A febbraio si è offerto volontario di nuovo, ma questa volta il numero delle vittime che si è trovato davanti è stato smisurato.

Alberto Cagliani è diventato taciturno e ha smesso di tornare a casa per pranzo. “È un massacro senza fine” diceva alla figlia. Il 13 marzo, dopo essersi preso cura dell’ennesima vittima, ha avvertito un dolore intenso alla spalla destra che si è poi diffuso alla schiena e alle reni. La voce si è affievolita. Il volume della televisione ha iniziato a infastidirlo. Il 21 marzo la moglie lo ha visto sfiorare con le dita alcuni asciugamani soltanto per controllare se avesse il tatto, perché si sentiva le dita intorpidite. Dopo pochi giorni, è stata la volta delle gambe. Il giorno dopo ancora è morto di Covid, con i polmoni pieni di liquido.

Il suo ultimo desiderio era essere sepolto con la divisa degli alpini, e la figlia ha fatto tutto quello che le era possibile per esaudirlo, facendo avere alle pompe funebri la sua casacca e i suoi pantaloni verdi. Gli impresari delle pompe funebri le hanno rispedito la divisa a casa, spiegando che la paura del contagio rendeva impossibile vestire i morti.

“Sapere che l’hanno infilato in un sacco nero: questo è il mio rimpianto più grande” dice Sara Cagliani tra le lacrime, e aggiunge che ha iniziato ad andare da uno psicologo e che la tragedia ha cambiato molte persone nella sua affiatata cittadina.

“Le persone hanno paura quando si incontrano. La mancanza di cordialità, di abbracci, di strette di mano è palpabile”.

Altre persone sono ossessionate dalle terribili scelte che il virus li ha costretti a fare. A metà marzo, Laura Soliveri ha iniziato a prendersi cura della madre che presentava i sintomi del Covid a Brignano Gera d’Adda, un altro piccolo comune della provincia di Bergamo. I medici le hanno detto di non avere mascherine e di non poter andare a domicilio per un controllo. Il fratello farmacista l’ha avvisata di non permettere che la madre fosse portata via in ambulanza o ricoverata in ospedale, perché la famiglia non l’avrebbe più rivista.

Laura Soliveri, 58 anni, insegnante, ha perlustrato in lungo e in largo la zona alla ricerca di una bombola d’ossigeno che riuscisse a placare la fame d’aria della madre. Alla fine, è riuscita a procurarsene una e la madre è migliorata.

Poi, però, anche suo marito è stato contagiato dal virus. Insieme a tutta la sua famiglia si è data da fare daccapo per cercare un’altra bombola, questa volta per lui. Non potevano certo toglierla alla madre. Le condizioni del marito si sono aggravate e alla fine è stato necessario ricoverarlo. Lui, 64 anni, è morto il 5 aprile. La madre, 85 anni, è sopravvissuta

“Mia madre aveva l’ossigeno, ma non potevamo toglierglielo a lei per darlo a mio marito” dice Laura Soliveri, che ha iniziato a recarsi da un terapeuta e a prendere antidepressivi. Mentre parla, gira e rigira la fede nuziale del marito che lei ora porta al dito medio. “Vorrei averlo fatto” aggiunge.

Il virus ha messo a dura prova anche la fede della gente: Laura Soliveri dice di non riuscire più a pregare. Altri, invece, si sentono rafforzati nella loro.

In estate, Raffaella Mezzetti, 48 anni, volontaria della Caritas, ha detto che la chiesa è diventata un rifugio che accoglie le persone traumatizzate. A lei, invece, vengono ancora i brividi quando sente i motivetti delle pubblicità che passavano in televisione in quel periodo. Le sirene delle ambulanze, che secondo lei forse portano una donna a partorire in ospedale, la innervosiscono. “È una sensazione che ti entra dentro e lì rimane” dice.

Nella ricorrenza dei defunti, a Nembro una volontaria ha versato gocce di liquido disinfettante nelle mani di centinaia di familiari affranti e in lutto che entravano al cimitero per ascoltare il parroco Cella.

Delia Morotti, 57 anni, è uscita dalla Messa prima che finisse. Ha detto che sentir leggere a voce alta i nomi di tutti i defunti da Covid l’ha fatta arrabbiare. Tra quei nomi ci sono quelli di entrambi i suoi genitori. “Non meritavano una fine del genere. Prima è mancato mio padre, poi mia madre. Vado dallo psicologo da mesi”, dice Delia, che ha contratto il virus anche lei.

Alcune persone hanno trovato modi autodistruttivi per tirare avanti.

I medici dell’Ospedale Pesenti Fenaroli, che si era trasformato in un incubatore letale dell’epidemia, dicono di aver registrato un’impennata di casi di pazienti ricoverati per abuso di sostanze stupefacenti. Nella provincia, gli psicologi riferiscono un generale aumento dei casi di ansia e depressione.

Il personale infermieristico, che si è preso cura di tutti quei malati e degli altri contagiati di tutta la provincia, non è più oggetto di manifestazioni d’affetto.

“Le cose non sono più come prima” dice Katia Marcassoli, infermiera del Pesenti Fenaroli. Prima i compaesani e i concittadini telefonavano agli infermieri per esprimere solidarietà e chiedere come stessero. Adesso, invece, i pazienti telefonano per dar sfogo alla loro rabbia, perché i loro appuntamenti e i loro controlli medici sono stati cancellati per lasciare spazio ad altre procedure. “C’è molta rabbia tra la gente” dice.

La crisi sanitaria ha rimandato le visite di Giovanni Cagnoni, colpito da forti dolori allo stomaco. Quando finalmente l’hanno visitato, i medici hanno scoperto che è affetto da liposarcoma, una rara forma tumorale che colpisce la zona dei reni. Fissata la data dell’intervento ad agosto, si è constatato che il cancro aveva già prodotto metastasi ed era inoperabile.

“Gli ospedali non accoglievano più nessuno” dice dalla sua casa di Gazzaniga, seduto di fronte a un caminetto con le due figlie.

La famiglia Cagnoni è già passata attraverso un inferno, i dettagli dei quali sono stati annotati minuziosamente da questo ex comandante della polizia militare di 76 anni in un libriccino verde che porta il titolo di “Cronache del Covid-19”.

L’8 marzo sua moglie Maddalena Peracchi ha avvertito un brivido mentre camminava. Negli undici giorni successivi, lui ha annotato la sua temperatura (37.5, 36.5, 38 gradi). Poi, il 19 marzo, le condizioni della moglie sono precipitate e una squadra di barellieri in tuta anticontaminazione è entrata in casa e l’ha portata via in ambulanza.

Il 20 marzo, il fratello di lei ha telefonato per infondere loro forza “ed è morto quella notte stessa”. Il 29 marzo, Cagnoni ha annotato “entra in vigore l’ora solare” e, sotto, che i medici hanno telefonato per avvisare che la moglie aveva ormai le ore contate. Il 30 marzo, si legge, è stata una giornata lunghissima. Il 31 marzo ha telefonato lui all’ospedale, ed è venuto a sapere così che la moglie era mancata la sera prima. “Si sono dimenticati di avvisarci” si legge nella sua calligrafia blu. L’11 aprile, mentre sua figlia Monia si riprendeva dal virus, Cagnoni ha annotato sul suo diario il suo primo forte dolore allo stomaco.

Così tante famiglie hanno perso i propri cari che in estate, quando Bergamo finalmente è uscita dal confinamento obbligatorio durato mesi, in tanti hanno scoperto che amici e vicini di casa erano spariti. Ma nell’aria si percepiva anche un evidente desiderio di andare avanti.

Il parroco Cella ha organizzato un campo estivo: i bambini hanno giocato davanti agli irrigatori del municipio di Nembro. E, sebbene la paura aleggiasse nell’aria come le goccioline letali, gli abitanti di Bergamo si sono avventurati all’aperto.

A luglio, Roberta Pedretti, 52 anni, è uscita per un aperitivo in compagnia di altre infermiere con le quali ha stretto amicizia nel duro periodo della guerra all’epidemia. È andata in Piazza Pontida, dove dagli edifici sventolavano fiere bandiere con lo slogan “Noi siamo Bergamo”. Guardando attorno a sé la gente che affollava bar e ristoranti, ha detto: “Bergamo cerca di tornare a essere sé stessa, ma ha visto troppi morti. Non potrà tornare mai più come prima”.

In autunno i casi di Covid si sono ripresentati e a novembre a Bergamo il coprifuoco ha fatto sparire ogni fugace manifestazione di vita sociale.

La funicolare e la lunga scalinata tortuosa che portano alla sommità della collina medievale sono entrambe deserte. I ristoranti sono chiusi. Le pattuglie delle volanti lasciano scie di luce blu dalle sirene sui muri della città, mentre controllano che nelle strade non ci siano assembramenti.

I drappi con la scritta “Noi siamo Bergamo” sono ormai scoloriti dalle intemperie e sfilacciati.

Traduzione di Anna Bissanti © 2020 The New York Times

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