Cane, verme, servi. I braccianti che lavoravano per loro li chiamavano così e loro si facevano chiamare padroni. Stalle come alloggi e poco più di un euro l'ora di paga. Niente ferie, niente riposi e niente sicurezza. In base alle indagini svolte dai carabinieri del Nucleo investigativo del comando provinciale di Viterbo era questo il sistema adottato da alcune aziende agricole gestite da una famiglia di origine sarda ad Ischia di Castro, un antico centro di poco più di duemila abitanti al confine con la Toscana. Una situazione di sfruttamento pesante, dove i lavoratori, quasi tutti stranieri, non accennavano neppure a ribellarsi, e scoperta dopo che uno di loro, colto da malore, era stato portato via dall'azienda e abbandonato a bordo strada, con i familiari della vittima costretti anche, con una serie di minacce, a trasportare loro il corpo e poi a tacere con gli investigatori.
Su ordine del gip del Tribunale di Rieti, oggi i militari dell'Arma hanno quindi arrestato e messo ai domiciliari quattro imprenditori, padre e madre, di 75 e 70 anni, Raimondo Monni e Margherita Contena, e due figli, di 49 e 38 anni, Giovanni e Salvatore Angelo Monni, accusati di sfruttamento del lavoro ed estorsione nei confronti dei familiari del dipendente defunto. Messe inoltre sotto controllo giudiziario 5 aziende agricole, tutte di fatto parte di quella che gli investigatori definiscono una holding familiare. Aziende in cui i Monni si sarebbero occupati principalmente dell'allevamento degli ovini, tra i 4.000 e i 5.000 capi, e della relativa lavorazione del latte e della lana, e la 70enne Contena della parte amministrativa.
di
Marta Rizzo
L’inchiesta è stata aperta dal sostituto procuratore Stefano D’Arma dopo la morte, il 7 giugno dell'anno scorso, di Petrit Ndreca, un 44enne di origine albanese, trovato privo di vita in località Ponte San Pietro, ad Ischia di Castro, dopo che il cognato della vittima aveva dato l'allarme al 118 e ai carabinieri della locale stazione. Quest'ultimo aveva sostenuto che il cognato era deceduto all'improvviso mentre erano in auto diretti a Pitigliano, in Toscana. Una versione dei fatti che, considerando anche il ritardo con cui erano stati chiamati i soccorsi e l’anomala presenza sul posto di due noti imprenditori agricoli, aveva insospettito i carabinieri. Gli investigatori di Viterbo, avviate le indagini e riascoltate tutte le persone considerate informate sui fatti, si sono così convinti che in realtà il 44enne era stato colto da malore all'interno dell'azienda agricola in cui lavorava e che in quell'azienda vi fosse un pesante sfruttamento della manodopera.
La vittima, due mesi prima del decesso, era rimasta priva di permesso di soggiorno e, in base a quanto scoperto dai militari, avrebbe lavorato in nero per conto della famiglia Monni, in cambio di 800 euro al mese, 500 dei quali li inviava alla moglie in Albania. I datori di lavoro il 7 giugno 2019, contattati i familiari del 44enne e il cognato, un taglialegna residente a Manciano, sempre in Toscana, nella vicina provincia di Grosseto, avrebbero costretto quest'ultimo a caricare in auto il corpo di Ndreca, avvolto in una coperta. Sconvolto per l'accaduto, il taglialegna non sarebbe però riuscito a guidare e a portare via dall'azienda il 44enne avrebbero quindi provveduto i due fratelli arrestati oggi, chiamando infine, dopo alcune ore e giunti al confine con la Toscana, i soccorsi, per inscenare il malore in auto.
I familiari del 44enne erano terrorizzati dagli imprenditori indagati, avendo la famiglia di origine sarda fama di gente violenta, pur non avendo particolari precedenti. Alla fine, però, vinta la paura, gli stessi hanno riferito ai carabinieri del Nucleo investigativo come erano andate le cose. "Il corpo di Petrit è stato trattato come quello di una pecora”, hanno detto. E gli investigatori, agli ordini del tenente colonnello Marcello Egidio, temono anche che il 44enne, quando è stato portato via dall'azienda cercando gli imprenditori di evitare qualsiasi problema, fosse ancora vivo e magari si sarebbe potuto salvare se gli fossero state concesse delle cure immediate. Insieme ai colleghi del Nucleo Ispettorato del Lavoro, i carabinieri di Viterbo hanno poi rilevato "gravissime irregolarità" nei rapporti di lavoro instaurati dagli arrestati con i loro dipendenti, "costretti a svolgere pesanti mansioni da bracciante in gravosi lavori agricoli e di allevamento di ovini dietro compensi miseri, lavorando in pessime condizioni", privati dei documenti e senza firmare un contratto di lavoro.
Il 44enne e altri 17 lavoratori, che alla fine hanno collaborato con gli inquirenti avendo interrotto il loro rapporto di lavoro con gli indagati, negli ultimi due anni sarebbero stati impiegati in turni massacranti, dalle 9 alle 17 ore giornaliere, dall’alba al tramonto, con solo un’ora e mezza di pausa pranzo, in cambio di 1,16 euro l'ora a fronte degli 8 previsti dal contratto nazionale di lavoro. E c'era anche una differenza tra stranieri, in larga parte romeni e albanesi, oltre a qualche africano, e italiani. All’unico operaio italiano, un uomo di origine sarda, sarebbero stati infatti dati 4 euro.
di
Flavia Carlorecchio
Contestate così agli imprenditori arrestati violazioni delle norme sul riposo e le ferie, il lavoro notturno e festivo, che non veniva retribuito, quello straordinario, definito "abbondantemente oltre ogni limite consentito", sulle corresponsioni all'Inps e all'Agenzia delle entrate, evidenziando che la famiglia di origine sarda avrebbe evaso e non versato 87.750 euro solo negli ultimi due anni, relativi agli oneri contributivi, retributivi e fiscali. Diverse violazioni sono state poi riscontrate in tema di sicurezza nei luoghi di lavoro, essendo i dipendenti degli indagati costretti a svolgere mansioni pericolose, a tre metri d’altezza, senza protezione, o mediante l'utilizzo di trattori su pendii scoscesi. E problemi sono emesi anche sul fronte sanitario, non venendo gli operai sottoposti alla prevista sorveglianza sanitaria e soprattutto lavorando "in condizioni assolutamente insalubri", in quanto vivevano all’interno dell’azienda in alloggi umidi, malsani e sporchi, ricavati da alcune stalle con pareti completamente coperte di muffe. Lavoratori trattati appunto come schiavi, in un clima di violenza, minacce e continue umiliazioni.
Emblematica, per gli inquirenti, una conversazione tra uno straniero che aveva chiesto lavoro all'azienda oggetto delle indagini e l'anziano imprenditore indagato. Quest'ultimo aveva detto: “Le bestie, la domenica e il sabato mangiano lo stesso come mangi te! Capisci? [..] io non lo so con gli altri come hai fatto! Io quando dico è combinato per un mese, non ci sono sabati e non ci sono domeniche! Io ti pago tutti i giorni! Punto e basta! Non famo storie perché sennò stai dove sei! […] vi serve il lavoro? E andate a lavorare! […] Che giornate? Giornate te ne scrivo 5 al mese! Stop! Festa finita! Adesso lo sai! E devi sta attento eh! Devi lavorare bene e te lo sto a dì!”.
Gli investigatori specificano che "lo sfruttamento della manodopera è stato reso possibile dalla determinazione con cui la famiglia imprenditrice ha sfruttato le condizioni delle vittime, spesso quasi ai limiti dell’indigenza, fino ad assoggettarli completamente, poiché cittadini stranieri per lo più soli, con le famiglie da mantenere nei loro luoghi di origine, bisognosi della paga che veniva loro elargita come unica forma di sostentamento ed isolati dal resto della comunità, poiché di fatto impossibilitati per mancanza di tempo e di mezzi con cui muoversi ad uscire dall’azienda in cui vivevano e lavoravano". In pratica dei nuovi schiavi.
Caterina Pasolini
Il provvedimento di oggi, con le aziende messe sotto controllo giudiziario, è il primo del genere nella Tuscia. I carabinieri temono inoltre che il sistema messo in piedi dai Monni possa non essere un sistema isolato e che anche in altre aziende agricole della zona possano essere state realizzate delle forme pesanti di sfruttamento. Un dubbio che ha portato gli investigatori a decidere di estendere i controlli e far luce sulla situazione degli operai impegnati negli allevamenti del viterbese.
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