Per il caso Dieselgate è una scossa, un precedente importante che dà nuove speranze a migliaia di automobilisti. La scossa, sperano gli addetti ai lavori, potrebbe “svegliare” i tribunali di altre città italiane, finora molto cauti nel portare a giudizio il colosso tedesco dell’auto, Volkswagen, per aver barato sulle emissioni inquinanti di alcuni modelli.
La sentenza, prima in Italia nel suo genere, viene dal tribunale di Avellino: la giudice Maria Cristina Rizzi ha infatti condannato sia Volkswagen Italia sia la “casa madre” tedesca a restituire a un consumatore irpino il 20% della cifra con la quale aveva comprato un Maggiolino New Beetle 1600 turbodiesel, per un totale di quasi 7000 euro.
La sentenza apre la strada ad altre cause simili e, soprattutto, mette in discesa la strada già intrapresa da Altroconsumo: la class action nei confronti di Volkswagen che ha già raccolto oltre 75mila adesioni e mira a far ottenere a ciascuno di loro il 15% della cifra pagata per l’acquisto di uno dei modelli con centralina “taroccata”. L’iter giudiziario della class action procede a rilento, tra rinvii e ulteriori lungaggini provocate dalla pandemia. Tutto questo mentre in Germania, a maggio 2020, la Corte federale ha obbligato l’azienda a risarcire un cliente in base ai chilometri percorsi.
Per lo studio legale Luisa Caprio, che ha vinto la causa insieme ai collaboratori Romolo Clemente, Alfredo Clemente e Nancy Caprio, il successo è doppio. Non solo per aver ottenuto il risarcimento, ma anzitutto per aver portato in tribunale le due società. Impresa tutt’altro che scontata, visti i precedenti. “Finora i tribunali italiani hanno sempre accolto le tesi difensive di Volkswagen” spiega Romolo Clemente, sottolineando come la casa automobilistica abbia sempre sostenuto che il foro competente non fosse quello del consumatore, ma di Verona (dove ha sede Volkswagen Italia) o addirittura quello tedesco. Gli avvocati sono riusciti a ottenere il riconoscimento di un principio base (contenuto nel Codice del consumo): che nelle controversie tra grandi gruppi e singoli consumatori, il tribunale competente debba essere quello del consumatore.
L’altra strategia vincente è stata quella di spostare l’attenzione dall’aspetto tecnico a quello dell’informazione distorta. “Non potevamo provare con test di laboratorio l’esistenza del software truccato, perché questo avrebbe avuto costi insostenibili – spiega ancora Clemente – abbiamo però portato in aula la lettera che la Volkswagen ha inviato al nostro assistito nel 2015”. Una missiva nella quale la società, scusandosi per l’inconveniente, invitava il cliente a portare l’auto in un centro specializzato per verificare possibili “discrepanze nei valori delle emissioni di ossidi di azoto tra le prove effettuate al banco e le prove su strada” perché la sua auto era “equipaggiata con un motore appartenente a detta famiglia”.
E qui entrano in campo i depliant informativi e pubblicitari diffusi all’epoca, anche questi portati all’attenzione della giudice. “In questi fogli si parla di motore ecologico, di rispetto degli standard ambientali, facendo leva sulla sensibilità all’ambiente dei consumatori” spiega il legale. E proprio il cliente irpino, convinto ambientalista, aveva deciso di rottamare la propria vecchia auto a favore del Maggiolino.
Ed ecco perché nella sentenza la giudice scrive che questa condotta “integra senza alcun dubbio una pratica commerciale ingannevole e scorretta, caratterizzata dalla diffusione di informazioni non rispondenti al vero, che ha leso la libera scelta dell’attore-consumatore in ordine all’acquisto dell’automobile, facendo così sorgere in capo al diritto di risarcimento del danno”. Se il consumatore avesse saputo delle reali emissioni non avrebbe comprato quell’auto, ma un’altra più rispettosa dell’ambiente.
Il team dei legali irpini ha pochi dubbi sul fatto che Volkswagen ricorrerà in appello, ma ostentano fiducia: “Le motivazioni della sentenza sono molto solide, sarà difficile che in appello questa sentenza possa essere modificata”.
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