LONDRA. “Eccolo qui, l’ultimo sms che ci siamo scambiati. Due dicembre: “Spero che tu mi venga a trovare presto John. Non mi sento benissimo, ma che non vedo l’ora che arrivi Natale perché lo passerò con la mia famiglia in Cornovaglia. Ti voglio bene, David”. E cioè David John Moore Cornwell, alias John Le Carré. “Non pensavo finisse tutto così. Sono addolorato”, ricomincia John Banville tra i sospiri, “spero solo non abbia sofferto troppo, il mio amico David”.
Dieci giorni dopo, John Le Carré, uno dei più grandi scrittori inglesi di sempre, re della letteratura “spy” thriller, è morto a 89 anni nell’ospedale di Truro, nella sua Cornovaglia, per una polmonite, come comunicato dal suo agente. Anche Banville, 75 anni, straordinario scrittore irlandese (in Italia pubblicato da Guanda), si chiama John. Ma oltre al nome (de plum) e la suprema espressione della letteratura, Le Carré e Banville condividevano una profonda amicizia. “L’ultima volta che ci siamo visti mi ha detto che aveva nuove idee in mente…”
Un nuovo romanzo, postumo?
“Chissà se uscirà qualcosa di nuovo. Certo, aveva i suoi acciacchi e quasi 90 anni. Ma sprigionava sempre una forza vitale. L’estate 2019 ricordo, ben prima del Covid, andammo a pranzo insieme, e lui a 88 anni era molto più vigoroso di me che ne avevo quasi 15 in meno… finito di mangiare andammo a casa sua sotto la pioggia: David trasportava con leggiadria un’enorme sacca da golf in una mano, mentre io faticavo a parlargli dietro… era così felice. Ed è sempre stato un uomo molto coraggioso, non lo spaventava niente”.
Qual era la sua migliore qualità?
“Aveva un talento innato per l’amicizia. Quando lo incontrai per la prima volta a casa sua a Londra anni fa mi confessò che mi aveva atteso per tutto il tempo il mio arrivo scrutando dalla finestra, insieme alla moglie Jane. Era già un grande segnale di affetto. Immediatamente, diventammo cordiali e amici. Ma con lui era facile. Anche se, beh…”.
Cosa?
“…anche se in passato, devo ammettere, avevo recensito un paio di suoi libri tiepidamente sui giornali inglesi, diciamo… Lui lo sapeva benissimo, perché è sempre rimasto una spia dentro di sé, controllava ogni cosa… ma il suo spirito amichevole andava ben oltre. E poi venne in Irlanda la primavera scorsa, prima del Covid”.
A fare cosa?
“Andò a Cork, perché voleva scoprire la storia dei parenti di suo padre. Io lo raggiunsi, gli strinsi la mano e gli dissi: “Benvenuto a casa!”, e mi sorrise. Perché David stava pensando seriamente di trasferirsi in Irlanda”.
Perché?
“Era letteralmente disgustato dalla Brexit e dall’avanzare del nazionalismo inglese. Lo scioccava, lo deprimeva, lo indignava. Lui era un gentiluomo inglese. Un patriota inglese. Ma non un nazionalista inglese. Detto questo, era anche un imitatore eccezionale e raccontava storie bellissime”.
Per esempio?
“Quando l’ex capo del Kgb russo Evgenij Primakov arrivò a Londra anni fa per una visita ufficiale e chiese di incontrarlo. Mi disse che lui e sua moglie Jane si ritrovarono nell’ambasciata russa della capitale, circondati da russi, con Primakov che gli chiedeva cose di questo e quell’altro: “Ma lei sa dirmi qualcosa?”. Oppure quando Rupert Murdoch lo invitò a pranzo e chiese a David: “Mi può dire chi ha ucciso David Maxwell?””.
David Maxwell, il controverso padre dell’altrettanto controversa Ghislaine Maxwell, la britannica dei salotti buoni accusata di essere complice del miliardario pedofilo americano Jeffrey Epstein e ora in carcere a New York.
“Esatto. E così Le Carré rispose a Murdoch: “Ma guardi che io non ho alcuna informazione segreta. Sono un romanziere! Mi invento tutto!”. Il che è anche un riconoscimento per il tuo lavoro e il potere della narrativa in generale. Del resto, molti lo dimenticano, ma fu lui a inventare o a rendere di uso comune in inglese il termine “talpa” nello spionaggio o “Lamplighters”, ossia i “pali della luce”, le spie sorvegliavano o trasportavano informazioni. Mi diceva che coloro che hanno avuto un’infanzia difficile, come lo stesso David con un padre truffatore, erano i migliori a reinventarsi in ogni situazione. Lui però aveva un’autenticità di fondo, purissima. Magari prendeva in giro o affabulava anche me? Non credo. È stato sempre onesto e schietto, con me”.
C’è chi dice che dopo la caduta della Cortina di Ferro e di quel vecchio mondo basato sulla contrapposizione Occidente-Russia, John Le Carré non si sia più trovato a “suo agio” e che abbia scritto romanzi peggiori dopo precedenti capolavori come “La spia che venne dal freddo” e “La talpa”.
“Ah, lui riderebbe in faccia a chi la pensa così. Dopo la Guerra Fredda si concentrò sulla case farmaceutiche (“Il giardiniere tenace”, ndr) e molto altro. Aveva un’immaginazione potentissima. Ma certo, era sempre meravigliosamente all’antica. David somigliava più ai romanzieri del XIX secolo, come Somerset Maugham e Henry Rider Haggard. Ma, a differenza loro, prendeva il mondo per il collo con ironia e gli dava uno scossone. E poi David mi piaceva perché credeva davvero nei suoi protagonisti, nei suoi libri, nei suoi eroi come George Smiley. Tutto questo faceva parte del suo essere inglese e dello stile inglese che incarnava in maniera sublime. Anche per questa sua predisposizione tradizionale, Le Carré non si tratteneva dall’esprimere tutta la sua rabbia e indignazione contro Boris Johnson e la sua cricca che hanno conquistato il potere e l’Inghilterra”.
A proposito di Smiley, lei Banville una volta disse che i personaggi della letteratura sono fatti di parole e non di carne. Questo vale anche per un protagonista molto concreto, modesto e quasi borghese come George Smiley di Le Carré?
“No. Anche Smiley è fatto di parole, e non è più realistico di altri. David si ispirò ai suoi capi, ai suoi maestri per i suoi personaggi. Ma questi, per tutti noi scrittori, sono come Frankenstein: se poi gli stacchi al corrente, sono finiti, muoiono. Un personaggio di un libro può ispirarsi a qualcuno nella realtà, ma non lo è mai totalmente: noi scrittori guardiamo il mondo e scegliamo cose da imitare. Ma ai lettori piace credere che i loro eroi siano veri, che siano infiniti”.
Crede che Le Carré, nei suoi capolavori, abbia incarnato l’Occidente, le sue sfide e anche le incertezze contemporanee?
“No, non credo. Perché i suoi libri erano affascinanti, divertenti, non inquietanti come lo zeitgeist di quell’Occidente. Certo che ha rappresentato in maniera unica il Secolo Breve e la tragedia della Guerra Fredda. Ma i suoi romanzi erano soprattutto intrattenimento. David non si considerava un artista”.
Però è indubbio che Le Carré ci abbia messo spesso in guardia sulla fragilità della democrazia e della libertà nel mondo contemporaneo.
“Assolutamente. Per esempio, ha sempre considerato Johnson e Trump estremamente pericolosi, insieme all’emersione dei neo-fascismi in Russia, America, Regno Unito, Ungheria… Le Carré era furioso perché il suo amato Paese era finito in mano a Johnson e la sua compagnia: aveva una paura genuina di queste persone, lo indignavano. Ma lui è sempre stato così: sin da ragazzo cominciò a spiare e segnalare i suoi compagni di corso all’università, e non se ne pentì mai perché per lui erano una minaccia per il Regno Unito, per l’Occidente, per la libertà, in quanto flirtavano con il comunismo e il totalitarismo”.
Crede che la letteratura fosse una via di fuga dallo spionaggio per Le Carré?
“Oh no! Ha fatto la spia e lavorato nei servizi segreti perché la vita gli aveva proposto questo. Ma David è sempre stato uno scrittore nella sua anima, e il suo talento doveva solo avere l’opportunità di esprimersi. Perché scrittori si nasce. Magari ci vuole tempo per scoprirlo, o non lo si scopre mai. Ma si nasce”.
Qual è il suo romanzo preferito di David/John?
““La Spia che venne dal freddo”. Un vero capolavoro. Perfetto. Il più grande romanzo di spionaggio di sempre”.
Qual è la vera eredità che ci lascia Le Carré?
“il mito del romanzo inglese. Lui e scrittori come Iris Murdoch hanno continuato, ravvivato e proliferato questo filone inimitabile e cruciale della letteratura mondiale. Che è di tutti noi”.
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