ROMA – I giovani avvocati, ancora nelle vesti di praticanti, scendono in piazza per due giorni – domani e dopodomani – contro il rinvio della sessione di concorso per Covid e i ritardi nelle prove orali della precedente selezione che risale a un anno fa. Giusto in contemporanea Legalcommunity – piattaforma di informazione giornalistica sul mercato dei servizi legali in Italia – propone una ricerca tra i maggiori studi – che Repubblica anticipa – attraverso cui mette a confronto tre elementi chiave. In primo luogo lo stato della professionalità dei giovani avvocati rispetto alla professione effettiva. Quindi le esigenze degli studi legali rispetto al loro utilizzo. Infine le proposte per modificare, e accelerare in mondo netto, le fasi del concorso che attualmente, tra prove scritte, verifica dei compiti, e prove orali, possono durare due anni.
Ma ecco alcuni spunti contenuti nel lavoro di Legalcommunity. Che nasce proprio dal rinvio del concorso e dai tempi lunghi di quello precedente con l’ovvia conseguenza di penalizzare l’ingresso dei giovani avvocati nel mondo del lavoro, mentre in altri Paesi le lauree in giurisprudenza sono immediatamente abilitanti, oppure come nel Regno Unito non è richiesta una laurea, ma è sufficiente il superamento di un esame che porta all’abilitazione, o ancora come in Spagna e in Romania, l’esame è sostituito da un master o da un test a crocette.
A rischio una generazione di nuovi avvocati, per il virus saltano gli esami di abilitazione
di
Viola Giannoli
Lo studio parte da un dato di cronaca: “Il 2020 si chiude senza l’annuale sessione di scritti per l’ammissione all’esercizio della professione forense. L’annuncio, via Facebook, è arrivato il 5 novembre, direttamente da parte del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Se ne riparlerà in primavera. Una situazione difficile da sostenere per gli oltre 20mila praticanti avvocati in attesa di giudizio, ovvero di passare dalla condizione di tirocinante a quella di professionista in grado di esercitare”.
Dati di fatto dunque, difficilmente contestabili. A cui fanno seguito le “storiche”modalità d’esame: “Tre giorni di prove scritte da dedicare rispettivamente a un parere motivato di diritto civile, uno di diritto penale e alla redazione di un atto giudiziario. Una maratona giuridica da affrontare muniti di penna a sfera e fogli protocollo, al termine della quale saranno selezionati coloro i quali potranno essere sottoposti all’esame orale (sei materie inclusa la deontologia) in presenza o da remoto, a seconda di quello che sarà lo stato dell’allerta pandemica”.
Una situazione a cui Legalcommunity contrappone delle vie alternative. Perché giudica “l’esame di Stato per l’ammissione all’esercizio della professione forense un rituale ormai obsoleto”. Dice che è tempo di cambiarlo. In tal senso ci sono anche due proposte alla Camera di M5S (di Gianfranco Di Sarno) e del Pd (di Carmelo Miceli). E c’è una forte pressione che arriva dal mondo legale, visto che solo i primi 50 studi in Italia per giro d’affari, oltre a 10mila professionisti, contano su 2mila praticanti l’anno.
Ma ecco le cinque innovazioni emerse dal sondaggio tra gli studi operanti in Italia. Una proposta sul sistema di selezione: “Filtrare l’accesso alla pratica attraverso test attitudinali. Disincentivare chi non è realmente interessato alla professione”. Una sulla valorizzazione della pratica: “La valutazione del percorso di pratica dovrebbe far parte degli elementi di cui tener conto per l’ammissione all’esercizio della professione”. Una per aumentare le sessioni: “Per evitare che tra la fine della pratica e l’inizio dell’attività libero professionale passi troppo tempo si dovrebbero (almeno) raddoppiare le sessioni d’esame annuali”. Una sulla riduzione delle prove: “Ridurre il numero delle prove e orientarle alla verifica non solo delle competenze teoriche ma anche di quelle pratiche di approccio alla soluzione dei problemi”. Infine una proposta sull’utilizzo della tecnologia: “Basta compiti scritti con la penna e su fogli protocollo. Ci sono i mezzi e le condizioni per aprire all’uso dei computer anche nell’esame da avvocato”.
Ma vediamo quali sono i numeri proposti da Legalcommunity. A cominciare dal rapporto tra avvocati stabili e praticanti: negli oltre trenta studi d’affari che hanno risposto al questionario, ogni cinque avvocati c’è un praticante con un’incidenza del 21,9%. Il rapporto praticanti-avvocati – secondo lo studio – “sembra crescere proporzionalmente alla grandezza degli studi: è più alto per le grandi insegne italiane o per le law firm internazionali, in cui sfiora il 25% (un praticante ogni quattro avvocati)”. Cala invece negli studi più piccoli “con valori che vanno dall’11,3% al 13,7%”. Numeri che “nonostante la pandemia di Covid” non hanno fatto registrare “particolari oscillazioni nel numero di praticanti impiegati dagli studi tra il 2019 e il 2020”.
Quanto agli stipendi, secondo Legalcommunity, “per tutti gli studi interpellati i praticanti rappresentano un investimento, oltre a quello dei professionisti da formare”, tant’è che sono stabilmente retribuiti. Lo studio ricostruisce che “mediamente un praticante al primo anno percepisce 1.403 euro mensili”. Ma “nei grandi studi italiani possono superare da subito i 2mila euro”, mentre in quelli internazionali “si aggirano intorno ai 1.770 euro”. I compensi scendono negli studi più piccoli fino “a poco meno di mille euro”.
Lo studio esamina anche i criteri di selezione dei praticanti. “Il voto di laurea e l’università di provenienza rimangono i due discriminanti principali, rispettivamente con il 75,8% e il 55,1% delle preferenze. Solo leggermente meno “pesante” nella valutazione la presenza o meno di un master di specializzazione (41,3%), mentre la conoscenza della lingua inglese rientra sempre più spesso tra le competenze specificamente richieste dagli studi”.
E sempre dallo studio di Legalcommunity emerge che il 93,7% degli studi italiani sottoposti al sondaggio risponde negativamente al quesito se le nostre università e l’esame di abilitazione all’avvocatura formano professionisti adeguati. Il rapporto scrive che “la principale criticità riscontrata nei percorsi di studi di giurisprudenza (segnalata dal 71,8%) è identificata con il passaggio dal mondo accademico al mondo del lavoro. Seguono, in ordine, le modalità d’insegnamento (37,5%), le materie che formano il piano di studi (31,2%) e le modalità d’esame troppo poco pratiche (12,5%)”. Quanto all’esame di Stato “il 75% dei rispondenti lo ritiene da ripensare nella sua interezza: sia nella sostanza che nella metodologia”. E ancora, tra i molteplici punti critici, gli studi hanno evidenziato “l’inadeguatezza della forma dell’esame (53,1%) e la non reale indicatività del tipo di prove richiesto ai praticanti (59,3%)”. Segue “la standardizzazione delle materie oggetto d’esame” (34,7%) e “l’assenza di collegamento con le attività svolte durante la pratica” (56,2%). Ma il 40,6% mette in rilievo anche “l’annosa problematica dell’attendibilità delle correzioni delle prove”.
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