La vexata quaestio sull’autobiografismo della letteratura contemporanea, in ispecie quella italiana, non ha nulla né di contemporaneo né di italiano. Piccole donne, oggi considerato a tutti gli effetti un classico della letteratura di formazione — da cui sono state tratte ben quattro versioni cinematografiche sonore (l’ultimo film, del 1994, per la regia di Gillian Armstrong, vedeva Wynona Rider nella parte di Jo) e anche due film muti le cui pellicole sono andate perdute — trova la sua realizzazione esattamente in quel paradigma. I nomi delle sorelle March corrispondono ai nomignoli con cui si chiamavano le sorelle di casa Alcott, e almeno tre generazioni di lettori ricorderanno che l’avanguardista Jo a un certo punto fonda una scuola animata da principi educativi progressisti (niente ricamo e molta letteratura): la casa-scuola di Plumfield, aperta a studenti di età ed estrazione sociale diversa. Bene: in questo passaggio c’è l’esperienza diretta di Louisa May Alcott, che aveva un papà molto singolare: Amos Bronson Alcott, pedagogo e scrittore, legato alla filosofia trascendentalista di Emerson e al naturalismo di Thoreau, al punto da tentare, nel New England un esperimento di comunità agraria utopistica: il “Fruitlands”.
Di queste e altre esperienze dirette si nutre anche Le storie di Natale, che nascono proprio da un piccolo piacere personale: raccontare fiabe della buonanotte all’amata nipotina Lulu, che le arrivò in casa, orfana, a poche settimane di vita. Era figlia della sorella minore di Louisa: May. Per lei e per i suoi amichetti, Louisa si firmerà come Jo, confermando, pure in quella maternità adottiva, una volontà che il curatore della bella edizione Clichy, Giovanni Maria Rossi, a ragione, sottolinea: «Preferisco essere una zitella nubile e remare da sola sulla mia canoa» diceva.
Dodici racconti, quasi tutti finora inediti in Italia, tratti dalla raccolta Lulu’s Library, una serie di storie per bambini scritte nel 1885. Nate quindi a uso privato, queste storie ebbero poi così tanto successo tra la bambina e i suoi amici che l’autrice decise di farne un libro: «Non avendo nient’altro da regalare quest’anno, le ho raccolte in un solo volume come dono di Natale».
Il primo racconto della silloge pare scritto apposta per l’anno della sobrietà: è la storia di una bambina ricchissima che ha preso a noia il Natale perché non vi trova mai nulla di nuovo, si aspetta già tutto, possiede già tutto, e chiede alla madre di sorprenderla. Complice una visione onirica e una grande forza di volontà, la madre della bimba fortunata riuscirà nel suo intento. Il racconto fa piangere, sia chiaro: tutti fanno piangere. Vi è una freschezza, un possibile abbandono in essi che riesce a spazzare via anche quel po’ di retorica che il tempo e i cambiamenti di costume hanno steso su di essi: non la scrittrice, che invece era, ed è anche in questi racconti, molto puntuta. Spesso salta agli occhi infatti un intento pedagogico che forse viene troppo avanti e che va senz’altro rarefacendosi nei racconti a matrice naturalistica, quelli che Zia Jo mutuava appunto dall’esperienza del Fruitlands e che sembrano precorrere certe tendenze etico- politiche proprio degli anni Venti di questo millennio. Il rapporto strettissimo dell’uomo come animale, immerso in un ecosistema che lo abbraccia e lo accoglie.
Delle fiabe classiche Louisa May Alcott in questi racconti non dimentica nulla: né la tradizione diretta anglosassone (vi è una citazione esplicita dello Scrooge di Charles Dickens) né l’indiretta che origina da Esopo. Qui gli animali sono amici degli uomini, li aiutano e li difendono: tornano, il moscone, il pesciolino e il topo, ad aiutare la meravigliosa Rosy a raggiungere il padre in un rocambolesco viaggio, da cui emergono anche battaglie politiche vivaci, animatrici delle cronache del tempo, tra tutte l’Uderground Railroad, la rete di strade clandestine e rifugi sicuri organizzata dagli abolizionisti per favorire la fuga degli schiavi afroamericani verso il Nord e il Canada. Ora gli animali sono personificati, Orweliani, e di essi conosciamo ogni andito delle personalità, in essi riconosciamo ogni vizio e ogni virtù dell’animo nostro, come nella storia dei due galletti Peck e Cock.
Resta da dire qualcosa sull’edizione, ché l’edizione sempre qualcosa significa: è bellissima. Rientra in una collana molto particolare di Clichy, che si chiama Père Lachaise, come il cimitero monumentale di Parigi che ospita le spoglie dei grandi narratori. E splende per la traduzione precisa di una miriade di termini naturalistici, un inventario di zoologia e botanica; e per certe inversioni linguistiche potenti, mantenute: «Fiori sbocciavano all’improvviso nelle camere degli ammalati»; per l’icasticità dei concetti: «Una farfalla vide tutto». A Giovanni Maria Rossi e Francesca De Luca i complimenti e i grazie.
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