E’ considerato uno tra i più grandi alpinisti di tutti i tempi. Reinhold Messner, nato nel 1944, ha sempre cercato nuove sfide nel rapporto tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e la montagna, sperimentando il limite in ogni esperienza che ha compiuto non solo nelle ascensioni in alta quota, ma anche nelle spedizioni ai Poli o nella traversata del deserto del Gobi: E’ stato il primo scalatore ad aver salito tutti e quattrodici gli Ottomila, e il primo ad aver salito l’Everest in solitaria e senza ossigeno. Ha vissuto l’alpinismo e l’approccio alla montagna come arte della rinuncia, provando costantemente a ridurre l’impatto sull’ambiente. Il suo impegno politico con i Verdi al Parlamento Europeo è stato ispirato da una visione ecologista.
"Dobbiamo assumerci la responsabilità di tutelare le montagne" dice adesso in occasione della Giornata internazionale della montagna. Fornisce argomenti più che convincenti a sostegno del suo appello, partendo dalla realtà di Castel Juval, la sua residenza con museo annesso e due masi di cui uno completamente autosufficiente, a picco tra la Val Venosta e la Val Senales nel Sudtirolo. "Qui c’è un piccolo concentrato di autosufficienza, sul modello della vita in montagna di un tempo. In un maso vivevano insieme più generazioni e avevano tutto il necessario per sopravvivere, cereali, latte, carne, verdura, frutta e legna". Nei giorni scorsi è arrivata un’abbondante nevicata. I cedri himalayani sono stati completamente ricoperti da un manto bianco e Messner ha dovuto liberarli perché le foglie e i rami non ne reggevano il peso. "Ho faticato ad aprire la porta di casa per uscire" racconta l’autore di Ritorno ai monti e Everest solo,
Messner, lei non sembra aver bisogno di andare troppo lontano per trovare la wilderness che ha descritto nei suoi libri e saggi. A Castel Juval in quale tipo di paesaggio naturale è immerso?
"In questi giorni il castello sembra un campo base in Nepal, ma a prescindere dalla nevicata l’ambiente qui è molto selvatico e incontaminato. Abbiamo un piccolo maso che è affidato a mio figlio e un maso biologico più grande dove l’80% del terreno è composto da zone rocciose, da bosco e verticalità. Ci sono centinaia di posti e angoli dove nessuno è ancora mai andato, neanche io. Bisognerebbe calarsi con la corda, ma è molto complicato. E’ certamente la parte più bella del castello. E la lascio esattamente com’è da migliaia di anni".
Dalla natura selvaggia dipende la sopravvivenza del mondo. Lo ha scritto nell’Ottocento Henry David Thoreau, l’autore di “Walden. Vita nel bosco” e “Disobbedienza civile”.
"E’ una cosa vera e giusta, ma dobbiamo anche comprendere che da noi sulle Alpi esistono due ambienti differenti, due strati quasi. L’area più selvaggia, che dovrebbe rimanere wilderness, si trova oltre una certa quota, generalmente sull’arco alpino sopra i 2200, 2400 metri di altitudine. Al di sotto c’è invece la montagna abitata con la terra lavorata, dove l’uomo da diecimila anni interviene sul paesaggio montano attraverso il proprio lavoro, dove il contadino e il montanaro lavorano la terra e costruiscono le case con le pietre e il legno del luogo, preservando la biodiversità e la tenuta del terreno. E’ una cultura che ha un grande valore perché afferma il principio dell’autosufficienza. Originariamente l’uomo si recava sulle montagne per cacciare, poi per condurre mandrie e greggi di pascolo in pascolo, dopodiché vi si stabilì per lavorare la terra e allevare bestiame. Una volta insediatisi tra i fondali delle valli e i pascoli estivi, i popoli di montagna hanno saputo sviluppare e affinare una propria arte della sopravvivenza, una cultura che, al contrario di quella urbana, si basa sulla responsabilità personale, sul mutuo aiuto, rinuncia al consumo. La vita e la storia delle montagne si riassumono nella vita e nella storia degli uomini che le abitano. Ma la montagna è però la somma di due parti, la terra lavorata e l’ambiente selvaggio, e non è divisibile. In questo risiede anche il suo fascino. La questione fondamentale è non lasciare tracce in alta montagna e tutelare le attività agricole e pastorali dei montanari a quote più basse".
Si stanno moltiplicando le iniziative di sensibilizzazione sulla salvaguardia dei ghiacciai che rischiano di scomparire per l’effetto dei cambiamenti climatici. L’ultima è la campagna “Save The Glacier” lanciata da Skyway Monte Bianco e Forte di Bard. Qual è il suo punto di vista su questa tematica?
"Prima di tutto è indispensabile dire che i ghiacciai in tutto il mondo sono soggetti ad un processo di scioglimento. Il cambiamento climatico provoca il prosciugamento delle valli glaciali, che costituiscono dei bacini naturali di raccolta delle acque per irrigare i campi, come serbatoio di acqua dolce, per la produzione di energia, per l’industria. I ghiacciai sono come laghi artificiali in quota, sono riserve d’acqua. Il ghiaccio marino dell’Artico diminuisce gravemente ogni anno che passa, meno in Antartide perché lì c’è una massa enorme. Però bisogna sapere che l’86 per cento di tutto il ghiaccio della Terra si trova in Antartide, l’8% in Groenlandia, il 3% in Canada nelle terre del nord, per il resto i ghiacciai di tutte le montagne del mondo costituiscono meno del 3%. Il cambiamento climatico purtroppo oggi è galoppante per la conseguenza del nostro stile di vita, per l’utilizzo senza remore di grandi quantità di combustibili fossili, per il carico di aggressività, consumismo e mobilità della nostra civiltà. Ci sono tanti fattori che concorrono all’innalzamento della temperatura del Pianeta, non c’è ovviamente solo una responsabilità degli esseri umani. Il clima muta costantemente, la storia della Terra è un processo continuo di cambiamenti. All’epoca di Ötzi, l’uomo di Similaun, più di cinquemila anni fa, faceva più caldo di oggi. Il problema cruciale è che il riscaldamento terrestre ha però subito un’accelerazione spaventosa nel nostro tempo e la natura non è riuscita a tenere il passo. In montagna gli effetti sono più percepibili che non in pianura, dove per altro sono concentrati i principali acceleratori di questo processo. Dagli alpinisti agli escursionisti che vanno in montagna a piedi, cercando di non lasciare traccia, noi possiamo prendere oggi esempio per un comportamento ecologico".
Come si può rispettare la montagna per salvarla?
"Dico sempre che la montagna non è buona né cattiva. Valanghe e frane ci sono sempre state, che l’uomo fosse in montagna oppure no. La questione è che l’uomo è diventato sempre più potente e ha condizionato con il proprio comportamento il fragile equilibrio sulle montagne. Il nostro modo di vivere si riflette nel cambiamento climatico. Perciò è più che mai essenziale oggi assumere comportamenti e promuovere azioni sostenibili per l’ambiente montano, ponendosi il problema di come ci muoviamo, di che cosa acquistiamo e di quanta energia consumiamo. Rallentando i nostri ritmi e privilegiando il silenzio e la moderazione anche andando in montagna, possiamo fare senza dubbio del bene all’ambiente, oltre che a noi stessi. Dobbiamo anche insistere sul concetto di riduzione, di rinuncia, soprattutto tra chi pratica l’alpinismo: lo stile alpino, leggero, è più pulito, etico e dunque sostenibile".Original Article
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