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Primavere arabe: la rivoluzione di Mohamed

La mattina del 17 dicembre 2010 per Mohamed Bouazizi comincia come tutte le altre: si sveglia presto e lascia la sua casa a venti minuti dal centro di Sidi Bouzid, cittadina rurale nel cuore della Tunisia. Carica sul suo carretto frutta e verdura acquistata a credito, e come tutti i giorni va al mercato per venderla. Dal successo della sua giornata di lavoro dipende la famiglia: quattro fratelli e sorelle più piccoli, tutti ancora impegnati negli studi, la mamma Manoubiya e lo zio, fratello del padre morto, sposato in seconde nozze. Solo il fratello più grande, Salem, è in grado di mantenersi da solo.
Alle dieci Mohamed, che di anni ne ha 26, ha venduto ben poco: gli altri ambulanti del mercato ricordano che è stanco e scoraggiato quando Faida Hamdi gli si para davanti. E qui le versioni divergono: gli amici di Mohamed dicono che la poliziotta pretende da lui soldi per chiudere un occhio visto che non ha la licenza. La donna sostiene invece di essersi limitata a chiedergli il documento. Quale che sia la verità, la discussione presto sfocia in lite: la merce di Mohamed finisce a terra, invendibile, e la poliziotta gli sequestra la bilancia senza la quale il giovane non può più lavorare. A nulla valgono le sue proteste: la donna – e qui mito e realtà si fondono – gli risponde sputandogli in faccia e insultando, davanti a tutti, il padre morto. Quello che è certo è che alle 11 Mohamed è negli uffici del Municipio: vuole riavere indietro la sua bilancia, ma nessuno gli presta ascolto. Lui allora esce, acquista una tanica di benzina e alle 11.30 in punto si dà fuoco. Proprio di fronte a quell'edificio governativo. La cosiddetta Primavera araba inizia in quell'istante.

Dalla Tunisia all'Egitto, l'incendio dilaga per mesi, senza tregua. Mohamed Bouazizi non è certo il primo a darsi fuoco per protestare contro il governo, né in Tunisia, né nel mondo arabo. Ma il suo sacrificio arriva in un momento particolare, mentre la regione da anni combatte con crisi economica, mancanza di prospettive, disoccupazione, corruzione. E le dà la sveglia.
Il ragazzo viene trasportato all'ospedale di Sidi Bouzid, poi a Sfax e infine – ormai in coma, con ustioni su quasi tutto il corpo – a Tunisi. Mentre nelle strade il suo nome diventa la parola d'ordine della rivolta, il presidente Zine El-Abidine Ben Ali – al potere da 23 anni – si impegna a fare di tutto per salvarlo. Non ci riesce. Mohamed muore il 4 gennaio alle 17.30, senza aver mai ripreso conoscenza, e il fiume di gente nelle strade della Tunisia diventa un oceano.
Ci sono scontri, spari e ancora morti, un centinaio: il 14 gennaio Ben Ali lascia il Paese alla volta dell'Arabia Saudita, dove morirà nel 2019. Meno di due settimane dopo, ad accendersi è l'Egitto: ci vogliono 18 intensissimi giorni e notti perché Hosni Mubarak, detto il Faraone, presidente da quasi 30 anni, lasci il potere. In contemporanea iniziano a tremare la Libia e lo Yemen: qualche settimana dopo, la Siria. "Il popolo vuole la caduta del regime" si sente urlare dal Cairo a Sana'a: per qualche mese tutti ci illudiamo che i volti felici e determinati di quei ragazzi siano il futuro del mondo arabo. Poi, lentamente ma senza nessuna pietà, una realtà fatta di violenze, torture, guerre e massacri prende di nuovo il sopravvento.
Da quelle giornate sono passati dieci anni. Oggi nelle strade di Sidi Bouzid, di Mohamed resta solo il ricordo: il monumento con il suo carretto è ancora lì, nel centro della cittadina. Così come il volto su un murale di fronte all'edificio delle Poste e la tomba, semplice, al cimitero. Ma nient'altro. Anche la sua famiglia non c'è più, sono partiti tutti, vivono in Canada.E con le restrizioni dovute al Covid, la prossima settimana non ci saranno neanche celebrazioni simili a quelle degli anni scorsi a ricordare il "martire".
"Avremmo voluto organizzare qualcosa, ma è stato davvero impossibile" ci racconta al telefono Ali Bouazizi, 48 anni, uno dei cugini di Mohamed. In quanto accadde dieci anni fa Ali ha un ruolo di primo piano. Attivista, da tempo documentava quello che accadeva nella sua città usando la sua videocamera, in qualche modo anticipando le migliaia di ragazzi e ragazze che, armati di cellulare, nei mesi seguenti avrebbero raccontato al mondo in diretta quello che stava accadendo nelle piazze arabe. Quella mattina del 17 dicembre Ali è il primo ad accorrere sulla piazza di Sidi Bouzid, chiamato da uno zio, ma non sapeva che a bruciare era il ragazzo che lui considerava una sorta di fratello minore. Sarà lui, quella sera stessa, a inviare il video ad Al Jazeera, da dove verrà ripreso in tutto il mondo: e sarà ancora lui a raccontare alla tv qatarina, consapevolmente, la bugia che getta altra benzina sul fuoco. Disse che Mohamed era laureato, e che si era ritrovato a fare l'ambulante in mancanza d'altro: una traiettoria in cui si riconoscono migliaia dei ragazzi tunisini che poi sarebbero scesi in strada, ma che non corrisponde a quella del cugino, in realtà costretto da tempo a lasciare la scuola per mantenere la famiglia.
Ali è l'unico che ancora parla con i giornalisti e per questo si è attirato le ire di parte della famiglia, che lo accusa di voler in qualche modo "capitalizzare" la vicenda. Dei fatti di dieci anni fa, la madre, i fratelli e le sorelle di Bouazizi non vogliono più saperne nulla, almeno non in pubblico: nei mesi e negli anni immediatamente successivi alla morte di Mohamed non si erano mai tirati indietro, arrivando anche a portare in tribunale chi, a loro dire, infangava la sua memoria. Ma poi sono arrivati i messaggi di odio degli esponenti dell'ex regime; l'invidia di chi li accusa di essersi arricchiti sulla pelle del "martire" trasferendosi in un quartiere chic di Tunisi grazie ai soldi del governo, o di aver venduto il carretto di Mohamed a uno sceicco emiratino; infine la rabbia dei conoscenti che si sentono snobbati.

La famiglia prima lascia Sidi Bouzid, poi il Paese. Laila, la sorella più piccola di Mohamed, è la prima a trasferirsi in Canada, nel 2013, come studentessa, seguita poi dalla madre, dalla sorella e dai due fratelli minori, che hanno chiesto asilo nel 2014: si dice che volessero aprire un ristorante arabo, ma non è chiaro se ci siano mai riusciti. In Tunisia, a Sfax, resta solo il fratello più grande di Mohamed, Salem.
Quasi a simboleggiare speranze e delusioni di una intera generazione, a parte il cugino Ali tutta la famiglia Bouazizi rispetta la consegna del silenzio, dettata di fatto da Laila nella sua ultima intervista, nel 2015, al Journal du Quebec: "La vita per noi in Tunisia era diventata impossibile. Minacce e maldicenze non sono mai cessate, lì non potevamo più vivere. Auguro ogni bene alla Tunisia, ma io qui sono rinata". La donna oggi si nasconde dietro a un profilo di Facebook anonimo, dove nulla ricorda il fratello.

Per quanto sia l'unico dei Paesi protagonisti della Primavera ad aver fatto passi avanti, la Tunisia di oggi è ben diversa da quella che migliaia di persone scese in piazza in nome di Mohamed sognavano nel 2011: una nazione ancora bloccata dalla corruzione e dalla mancanza di prospettive, con un tasso di disoccupazione medio del 15% che sale al 30 fra i giovani e supera il 60 nel caso dei laureati (dati Ocse). La crisi del Covid ha portato a un crollo del Pil del 10% nei primi nove mesi dell'anno rispetto al 2019, e nel solo mese di ottobre nel Paese si sono contate 870 proteste, il 16% in più dello stesso periodo un anno fa. Qualcuno per protesta si dà fuoco, come Mohamed: dodici persone sono morte così nel 2019 secondo i media locali, almeno due nel 2020. Nel 2016 erano state oltre cento.
"A dieci anni dalla rivoluzione, la Tunisia continua ad essere considerata come l'unica storia di successo della cosiddetta Primavera araba" ci spiega Renata Pepicelli, docente di Storia dei Paesi islamici e Islamistica all'Università di Pisa. "Indubbiamente una serie di obiettivi importanti sono stati raggiunti: libertà di espressione e di associazione, una nuova Costituzione, elezioni libere, rafforzamento dei diritti delle donne. Ma nella pratica molte cose non sono applicate. La crisi economica e quella politica stanno destabilizzando i risultati raggiunti. Un diffuso senso di tradimento delle promesse rivoluzionarie attraversa tutto il Paese e produce risposte diverse: allontanamento dalla politica, nuove migrazioni, estremismo violento".

Il cugino Ali, rimasto a Sidi Bouzid, incarna tutto questo: "Non posso dire che ci siamo pentiti, oggi stiamo meglio che nel 2010. Ma i fondi arrivati sono stati spesi senza alcuna saggezza, senza investire nella formazione o nelle infrastrutture. E così alla fine qui ogni anno che passa le cose peggiorano rispetto all'anno precedente. E non è questo che sognavamo dieci anni fa".

(Hanno collaborato Fouad Rouehia e Ahmed Kanfir)
Sul Venerdì dell'11 dicembre 2020Original Article

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