Quindici assoluzioni in 25 anni di processi. L’ex ministro democristiano Calogero Mannino è entrato oggi nel guinness dei primati della giustizia italiana. L’ultima assoluzione, oggi, della Corte di Cassazione, nel processo in abbreviato per la “Trattativa Stato-mafia”, che pure ha visto delle condanne pesanti col rito ordinario per altri autorevoli rappresentanti dello Stato: gli ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, accusati di aver intavolato un dialogo segreto con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. L’accusa sosteneva che Mannino si sarebbe rivolto ai carabinieri dopo le minacce della mafia. E che i mafiosi avrebbero cambiato obiettivi da eliminare: non più i politici, ma i magistrati come Falcone e Borsellino. Tesi spazzata via in tutti i gradi di giudizio.
Prima ancora, Mannino era stato assolto anche dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, processo per cui era finito in carcere. Assoluzione pure nel processo per la Tangentopoli siciliana. E nel processo per le misure di prevenzione. Oggi, Mannino parla di “via crucis”: «In un paese civile nessun imputato dovrebbe aspettare un periodo così lungo per essere assolto. Venticinque anni sono davvero tanti, troppi. Il mio impegno nella vita politica è stato interrotto. Il tema della giustizia resta centrale nel nostro Paese». Mannino parla comunque di “giudici liberi”. Resta però l’amarezza: «Da assolto ho già scontato una pena troppo lunga», dice. In carcere ci restò per nove mesi, altri tredici li trascorse agli arresti domiciliari. Alcuni pentiti parlavano delle “amicizie pericolose” di Mannino. Ma alla fine del processo arrivò la prima assoluzione, “perché il fatto non sussiste”. E quando in Cassazione arrivò invece la pronuncia di altri giudici, questa volta di condanna, il procuratore generale ribadì: “Nella sentenza di condanna di Mannino non c'è nulla. La sentenza torna ossessivamente sugli stessi concetti, ma non c'è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici, nulla che possa valere a sostanziare l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe essere mai scritta”. Per una condanna non bastavano le voci, non bastavano i de relato dei pentiti, non bastavano neanche le frequentazioni con personaggi equivoci.
I giudici d’appello del processo Trattativa sono andati anche oltre, riscrivendo la narrazione della figura di Mannino che emergeva dai verbali dei pentiti: “Non è stato affatto dimostrato – hanno scritto – che Mannino fosse finito anch'egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo Maxiprocesso) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991, in cui era rientrato dal mese di febbraio di quello stesso anno”.
Mannino uomo dei record per le assoluzioni. Ma ne ha battuto anche un altro di record fra gli imputati di mafia: non ha mai citato l’amicizia con Giovanni Falcone o con altre vittime eccellenti della mafia per difendersi. Mai. Solo di recente ha raccontato in un’intervista all’AdnKronos: “Fui io a portare il giudice Giovanni Falcone all’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Una mattina alle 8 Cossiga aprì la porta e si ritrovò me e Falcone. Il magistrato era molto amareggiato per la mancata nomina a giudice istruttore, ma anche al Csm, e voleva andare all’Onu, a Vienna. Cossiga lo fermò e gli disse che doveva continuare ad occuparsi di mafia”. Ma neanche questa volta Mannino ha parlato del rapporto di amicizia con il giudice Falcone per sostenere le ragioni della sua difesa.
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