Quando parliamo di mafia non possiamo più affidarci solo alle sentenze della magistratura italiana. E' troppo riduttivo, è troppo fuorviante per spiegare cosa è o cosa è stata la complessità della Sicilia con il bollo di un tribunale o di una corte di assise. La sentenza che ha assolto per sempre uno degli uomini più potenti della prima Repubblica ci spiega che dobbiamo cambiare passo, cultura, cambiare respiro per capire i sistemi di potere e le collusioni fra le "classi pericolose" (che in Italia si chiamano Cosa Nostra, 'Ndrangheta, Camorra), ci spiega che la "via giudiziaria" non basta più per raccontare personaggi e contesti.
Il verdetto di assoluzione pronunciato dalla Corte di Cassazione per l'ex ministro Calogero Mannino nel processo stralcio sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia – l'accusa era di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato – non ha nulla di scandaloso o di eccessivo. E' solo e semplicemente una decisione dei giudici che hanno vagliato indizi e prove giungendo a una onorevole conclusione. Dopo l'assoluzione di primo grado, dopo l'assoluzione di appello. E se da una parte i giudici hanno stabilito che l'ex ministro non è mai finito nel mirino della mafia siciliana per le "promesse non mantenute" per il buon esito del maxi processo, dall'altra non possiamo ignorare o cancellare chi è stato per più di una ventina di anni Calogero Mannino. Quale potere ha rappresentato, quale tipo di relazioni ha intessuto, quali pericolosi collegamenti ha subito o a volte anche cercato.
di
Francesco Patanè
Calogero Mannino, riferendosi ai procuratori che l'hanno trascinato in giudizio molti anni fa, oggi parla di "esercitazioni di fantasia" e di "ossessione persecutoria di alcuni pubblici ministeri" e che "per fortuna esistono magistrati liberi".
L'ex ministro non sarà il primo anello della trattativa Stato-mafia consumata al tempo delle stragi, non ha esercitato pressioni su quegli ufficiali del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri che tramarono nelle settimane fra l'uccisione di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, ma ci sembra veramente sfrenato considerarlo ora – dopo l'assoluzione – un campione dell'antimafia o una vittima assoluta come lui vorrebbe apparire.
Tutti in Sicilia sanno perfettamente chi era lui o chi era Salvo Lima, il fidatissimo proconsole di Giulio Andreotti in Sicilia. Due mondi diversi, che però ogni tanto si sfioravano e si toccavano. Dalle parti di Palermo, soprattutto dalle parti di Agrigento.
Sono passati quasi trent'anni dai massacri di Capaci e di via Mariano D'Amelio, un certo furore è svanito, lo Stato ha ripreso il suo ritmo, la magistratura giudicante non è più piegata implacabilmente sulle posizioni delle procure distrettuali, ogni opinione sulla materia è degna. Anche sui ras della politica siciliana a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta. Anche sui matrimoni dei rampolli dei grandi capimafia e con i testimoni eccellenti (come Calogero Mannino) che erano cerimoniosi là a presenziare.
Massimo rispetto sulla sentenza, massimo rispetto sui giudici della sesta sezione penale della Cassazione. Ma la magistratura non può riscrivere la storia, non può dirci cosa abbiamo visto e come abbiamo vissuto in quegli anni in Sicilia.Original Article
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