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Laurent Fabius: “Joe Biden si è impegnato sul clima, ora fissi obiettivi più ambiziosi”

"Parigi non è nuova alle rivoluzioni, ma questa è la più bella e pacifica che ci sia mai stata». Disse proprio così François Hollande, allora presidente francese, la sera dell’12 dicembre 2015 fa per salutare l’approvazione dell’Accordo di Parigi sul clima. Ma fu il suo ministro degli esteri Laurent Fabius, oggi presidente della Corte Costituzionale, a dare lo storico annuncio, quello che dopo giorni e notti e di negoziati fece dire 'Noi c’eravamo' ai rappresentanti di 195 Paesi e agli oltre tremila giornalisti presenti alla copertura dell’evento. Sono passati cinque anni da quella sera, e Laurent Fabius ci racconta di aver conservato il piccolo martello verde con cui batté l’annuncio. Molte speranze sono state tradite, lo riconosce anche lui, «ma se è vero che l’Accordo di Parigi non risolve tutto, niente si risolverà senza di esso".
Monsieur Fabius, cosa ricorda di quei giorni?
"Il momento in cui ho battuto il tavolo con il martello per segnare l’adozione dell’Accordo di Parigi rimane un ricordo molto intenso. Non sono particolarmente emotivo, ma in quell’istante ero molto commosso. Davanti a me c’erano ministri e negoziatori che avevano lavorato molti anni in attesa di quel momento. Riuscire a raggiungere un accordo tra 195 Stati dalle posizioni e dalle situazioni molto diverse, su questioni centrali per il futuro dell’umanità, è stato un compito straordinariamente complesso, e credo che costituisca un riconoscimento del valore insostituibile del multilateralismo. Quel martello ce l’ho ancora, l’ho conservato per ricordo, porta incisi i nomi di Ban-Ki Moon (ex-segretario di Stato dell’Onu), di François Hollande (ex-Presidente della Repubblica francese) e il mio".
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Secondo lei si poteva fare di più?
"L’Accordo di Parigi non risolve tutto, ma niente si risolverà senza di esso. Gli obiettivi sono chiari: non più di 2°C, almeno 1,5°C, di aumento della temperatura da qui al 2100, la neutralità carbonica a metà secolo, risorse finanziarie e tecnologiche messe a disposizione dei paesi in via di sviluppo da parte dai paesi ricchi, l’impegno da parte di ogni Stato di ridurre le emissioni di CO2, l’impegno a rivedere regolarmente al rialzo i propri obiettivi per un maggiore livello di esigenza, una transizione equa verso un’economia senza emissioni di carbonio. Eppure, cinque anni dopo l’adozione dell’Accordo di Parigi, gli scienziati sono unanimi: la situazione è critica. Se continueremo a non applicare integralmente questo accordo, rischieremo di raggiungere un riscaldamento di 3 o 4 gradi Celsius entro la fine di questo secolo, forse anche di più. Le tempeste, le alluvioni, la siccità e gli incendi degli ultimi mesi sarebbero allora solo un triste preludio di ciò che potrebbe aspettarci. La priorità è quindi di applicare integralmente gli impegni di Parigi, sia per i governi che per le organizzazioni non statali. Dobbiamo agire in modo forte e veloce".
L’approccio americano era, allora, molto diverso di ciò che abbiamo poi osservato con l’amministrazione Trump. Lei pensa che gli Stati Uniti torneranno a essere ciò che erano prima oppure che qualcosa nel loro approccio è cambiato definitivamente?
"Il mandato di Donald Trump è stato segnato da una grave regressione per quanto riguarda la lotta al cambiamento climatico. Joe Biden si è, invece, impegnato ad andare nella direzione opposta promettendo di tornare a fare parte dell’Accordo di Parigi adottato durante la COP 21, di agire risolutamente contro le energie fossili e a favore delle energie pulite, e di portare gli Stati Uniti alla neutralità carbonica entro il 2050. L’annuncio della nomina di John Kerry, che conosce bene queste questioni, in qualità di rappresentante speciale per il clima, è un segnale molto positivo. Ma non ci dobbiamo illudere, gli ostacoli interni sono tanti: politici (a seconda della maggioranza al Senato), economici (gli interessi in gioco sono enormi), persino giuridici (quid della Corte suprema?). Un segnale importante sarà l’impegno che prenderà – o meno – la nuova amministrazione americana riguardo la scadenza del 2030. L’amministrazione Obama si era impegnata a ridurre le emissioni dal 26% al 28% all’orizzonte 2025 rispetto al 2005, obiettivi che non sono stati raggiunti. Credo che per rispettare gli impegni presi durante la campagna elettorale, il presidente Biden dovrebbe fissare un nuovo obiettivo di riduzione, ancora più ambizioso".

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La Cina si è dimostrata più disponibile di quanto lo fosse all’inizio. Siamo di fronte ad un vero cambiamento di strategia oppure no?
"La Cina rappresenta quasi il 30% delle emissioni di CO2, ossia più delle emissioni degli Stati Uniti e dell’Europa messe insieme. Per applicare l’Accordo di Parigi, bisogna quindi che la Cina rispetti non solo i propri impegni, ma che vada anche oltre, possibilmente. Il Presidente Xi Jinping si è impegnato davanti all’Assemblea generale dell’Onu, lo scorso settembre, a far sì che la Cina raggiunga il picco delle sue emissioni prima del 2030, e la neutralità carbonica entro il 2060. Il 14° piano quinquennale cinese sarà decisivo per la realizzazione di tali impegni, il che significherebbe in particolare rimettere in discussione le numerose centrali a carbone. Diciamo che questa presa di posizione della Cina, ma anche del Giappone e della Corea del Sud, è un segnale di speranza".
L’Unione Europea è in grado, visto la situazione attuale, di diventare la protagonista di una nuova stagione, più rispettosa dell’ambiente e più severa nel monitoraggio dei risultati?
"In Europa, il Patto Verde Europeo, promosso da Ursula von der Leyen e accettato dai capi di Stato e di governo europei, rappresenta un vero passo in avanti. Prevede l’impegno degli Stati membri a mirare alla neutralità carbonica effettiva per il 2050. Per convincere gli Stati restii ad impegnarsi in questo senso, l’Europa non potrà agire da sola. Nel 2015, la chiave del successo della COP 21 è stata un’alleanza in particolare tra la Cina, l’Europa e gli Stati Uniti. Oggi, la probabilità di ripristinare un’alleanza del genere esiste, benché se il contesto (Brasile, Russia, Turchia, Stati del petrolio…) sia molto più difficile, con un arretramento del multilateralismo. La dinamica dell’Accordo di Parigi va ritrovata. L’Europa può e deve aiutare in questo senso".
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Purtroppo, è stato perso tanto tempo; quali sono, secondo Lei, le modifiche da apportare all’Accordo per poter rispettare gli obiettivi iniziali?
"Non si tratta di cambiare l’Accordo, ma di applicarlo integralmente, in particolare il cosiddetto articolo 6. La COP 26 sul clima che si svolgerà a Glasgow, in Scozia, preparata congiuntamente con l’Italia che presiederà anche, in quel periodo, il G20, sarà decisiva. Gli Stati dovranno prima consegnare dei contributi nazionali forti, specificando i propri impegni a favore del clima, cosa che hanno fatto in pochi. È altrettanto fondamentale l’obiettivo di stanziare almeno 100 miliardi di dollari all’anno già dal 2020, e anche di più in seguito, da parte dei paesi ricchi per aiutare i paesi in via di sviluppo a contrastare il riscaldamento climatico. Un’altra sfida riguarda la definizione delle regole per la realizzazione dei mercati del carbonio prevista dall’articolo 6 dell’Accordo di Parigi. La COP 25 di Madrid non è stata in grado di risolvere questa questione. Tre orizzonti temporali devono scandire impegni il più precisi possibile: il breve termine, 2030, 2050. Affinché la COP 26 sia un successo, dobbiamo ritrovare lo 'spirito di Parigi'.
Alcuni settori non coinvolti fino ad ora (aviazione, trasporti marittimi ecc) devono darsi degli obiettivi chiari. La parola chiave deve essere: azione. Ci dovremo concentrare sia sull’adattamento che sulle politiche di mitigazione. E bisognerà tenere conto delle disuguaglianze di fronte al riscaldamento climatico per una transizione equa".
La pandemia ha cambiato le carte in tavola: Lei pensa che alla fine sarà un’opportunità o, al contrario, un’ulteriore scusa per rimandare tutto?
"La pandemia ha evidenziato un notevole paradosso. Di fronte alla crisi sanitaria, numerosi governi sono stati costretti a prendere decisioni drastiche a livello sanitario, economico, finanziario e sociale. Eppure, senza voler assolutamente sminuire l’importanza eccezionale della crisi di Covid-19, le sue conseguenze sono relativamente limitate a fronte della profonda mutazione climatica in atto, e tenuto conto del fatto che, in quest’ambito, non esiste il vaccino. Eppure, fino ad ora, per parlarci chiaro, non ci siamo mossi con la stessa determinazione contro il riscaldamento climatico come per il Covid. I piani per il rilancio post-Covid dovrebbero essere altrettante occasioni per dare un nuovo impulso all’economia e allo stesso tempo contrastare il cambiamento climatico. Servono rilanci verdi, non rilanci grigi. Non è sempre così".
Le nuove generazioni chiedono al mondo politico uno sforzo più importante: cosa vuole risponderle?
"L’impegno della gioventù costituisce una potente fonte di speranza, forse quella più potente. Per definizione, i giovani hanno un’aspettativa di vita più lunga rispetto ai loro padri, e giustamente sono preoccupati per ciò che avverrà tra dieci o vent’anni. La prima «generazione del futuro» sono loro. Le loro mobilitazioni meritano molto di più che commenti paternalistici o scocciati. Rappresentano degli interrogativi e una preoccupazione di fondo. L’impegno dei giovani necessita, da parte dei nostri paesi e dei loro dirigenti, di risposte, di impegni, di fatti e di coraggio. È fondamentale coinvolgere i giovani in questi dibattiti. Da questo punto di vista, è un’ottima iniziativa dedicare molto più spazio alle questioni del cambiamento climatico e all’ambiente in generale nei programmi scolastici".

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Quale sarebbe l’errore più grande da evitare e quale sarebbe la prima cosa da fare per riaccendere lo spirito dell’Accordo di Parigi?
"Sin dall’inizio della COP 21 di Parigi, credo di aver conquistato la fiducia di ognuno rimanendo fedele al metodo annunciato: ascolto, trasparenza, ambizione per l’Accordo e spirito di compromesso. Non c’erano la presidenza della COP 21 da un lato, e le varie parti dall’altro: volevo che andassimo avanti insieme verso il nostro obiettivo comune. Perché gli obiettivi dell’Accordo non possono che essere raggiunti insieme. L’errore più grande sarebbe non ascoltare i bisogni di ogni Stato. È una condizione essenziale per garantire la fiducia nel lavoro e per raggiungere un compromesso ambizioso. Per ritrovare lo spirito dell’Accordo di Parigi, bisogna rilanciare questo indispensabile dialogo. Con, insisto, un obiettivo: applicare integralmente l’Accordo di Parigi".Original Article

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