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“Ho dato fuoco alle case dei vicini”. E il giudice ‘premia’ il migrante

Sei lì che dai fuoco alle sterpaglie di un campo, te ne vai, la notte il vento ravviva la fiammella rimasta accesa sotto le ceneri, s'incendia l'intero vicinato e tra le fiamme muoiono diverse persone. Un po' sa di figa, va detto. Ma è stato anche un discreto errore. I vicini allora ti vogliono linciare (si capisce). Così tu scappi, vai in Libia e poi in Italia. Qui chiedi e ottieni l'asilo sperato. La vicenda appare curiosa, ma è la vera vera storia di un migrante approdato nel 2016 in Italia, ritenuto dalla Commissione territoriale non meritevole di accoglienza con una decisione poi ribaltata dal tribunale di Bologna.

Abdul, così lo chiameremo, abita con il fratello in Gambia in una "casa di paglia" e vive dei frutti di "un piccolo terreno da coltivare". Dopo aver studiato alla primaria e per due anni alla scuola coranica, inizia a lavorare nei campi. Tutto fila più o meno liscio, finché un giorno Abdul commette un errore difficilmente perdonabile. "Prima di iniziare la coltivazione – racconta al giudice – occorreva ripulire i campi dall'erba secca. Nel fare questo lavoro, ho dato fuoco alle erbacce". Metodo rapido, ma pericoloso. "Pensavo che il fuoco fosse spento, quindi sono ritornato a casa. Di notte ha iniziato a spirare un vento forte che ha alimentato il fuoco ancora presente sul terreno e si è sviluppato un incendio che si è esteso alle case circostanti. Alcune persone sono morte in questo incidente, altre sono state ricoverate in ospedale". A quel punto il fratello prova ad andare da capo villaggio "per risolvere il problema", senza successo. I familiari dei defunti sono infuriati e intendono uccidere Abdul. "Sono venuti casa mia, mi hanno picchiato e mi hanno rotto un dente – racconta – Poi sono riuscito a scappare".

Il viaggio verso l'Italia inizia nel 2015, all'età di 16 anni. Abdul non si rivolge alla polizia perché, a suo dire, gli agenti in Gambia "non prendono la cosa in considerazione". Così finisce in Libia, dove rimane per un anno. "Per 11 mesi sono stato con un ragazzo libico – racconta – Mi ha portato lì per lavorare. Facevo i lavori domestici, ma era come se stessi in prigione. Non mi faceva uscire, non mi pagava. Mi dava solo vitto e alloggio. Mi picchiava. Mi minacciava con la pistola". Ovviamente il "ragazzo" di mestiere fa il trafficante. "Un giorno mi ha chiesto se volevo partire. Io non volevo più rimanere lì. Quindi mi ha portato in spiaggia per fare la traversata". Da lì l'approdo nel Belpaese. Abdul adesso non vuole tornare in Gambia perché è rimasto senza fratello (scappato pure lui), perché teme di essere ucciso e perché ormai c'è il Covid e "non vorrei ammalarmi: qui ci sono medici migliori e si trovano le medicine".

A settembre del 2018 la Commissione territoriale di Bologna aveva rigettato la sua richiesta di protezione internazionale. Ma come tanti altri migranti prima di lui, anche Abdul prova la carta dei tribunali. Scelta azzeccata. Il 26 novembre di questo maledetto 2020, il giudice del tribunale ordinario di Bologna accoglie la sua richiesta di permesso di soggiorno per "motivi umanitari". Nel "catalogo aperto" dei "seri motivi" che permettono alle toghe di assegnare permessi di soggiorno a chi non ha le carte in regola per lo status di rifugiato, rientrano evidentemente anche le vicende vissute da Abdul. Il giudice ha valutato alcuni fattori: l'addio al Gambia da minorenne, la vita di "estrema povertà" e l'essere orfano. Inoltre pare non abbia neppure una casa "dove far ritorno" né una "rete familiare e sociale di sostegno" che possa aiutarlo. Senza contare le "esperienze traumatiche" che avrebbe vissuto in Libia e il "percorso di integrazione" avviato in Italia (tra lezioni di lingua e lavoro "in nero" come bracciante agricolo). Vista dunque la "effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali", Abdul potrà restare nel Belpaese. I maligni direbbero: tutto bene, basta eviti di maneggiare fiammiferi e accendini. Non si sa mai.

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