NEL CUORE del Kansas, là dove un tornado trascinò via la piccola Dorothy oltre l’arcobaleno fino al magico Paese di Oz, in una contea conservatrice in cui il proibizionismo è finito solo negli anni 80, c’è un villaggio chiamato Good Intent (Buona Intenzione). È un posto desolato, non ha neppure un suo ufficio postale. È improbabile che gli abitanti sappiano chi è David Byrne, ma lui sa di loro, e ora anche il resto del mondo, o per lo meno chi leggerà American Utopia (La Nave di Teseo, pp. 160, euro 24).
Good Intent, Ks, è infatti una delle molte località dai nomi bizzarri che sbucano dalle pagine del libro con i disegni di Maira Kalman (illustratrice gioiosa di New Yorker e New York Times) e le didascalie di Byrne, libro che ha lo stesso nome dell’album uscito due anni fa e poi declinato in una magnifica tournée, uno show a Broadway e il film relativo, diretto da Spike Lee, che vedremo quando i cinema riapriranno. «Questa cosa delle cittadine dai nomi buffi» spiega Byrne affacciato da casa via Zoom «è farina del sacco di Kalman. E sono tutti posti veri» ridacchia. «Last Chance in Colorado, Two Egg in Florida… Maira si è divertita un mondo a scovarli».
Un incontro ravvicinato con David Byrne è molto simile a quello con gli alieni di Spielberg; pensi che lui veda cose che noi non sappiamo vedere, che potrebbe essere più facile presumere la traiettoria di una pallina da flipper che i suoi ragionamenti. Sono più di quarant’anni che fa musica ma anche film, foto, libri, disegni, musical, etichette, installazioni, blog, con la passione dei ragazzini che smontano il trenino elettrico solo per capire come funziona. Nell’ottobre del 1986 il Time gli aveva dedicato la copertina: Rock’s Renaissance Man, recitava il titolo, e accanto: «Cantante, compositore, paroliere, chitarrista, regista, scrittore, attore, videoartista, designer, fotografo». Ci possiamo aggiungere qualcosa? «Ciclista».
Byrne scruta lo schermo dall’alto in basso, come farebbe Gulliver con un lillipuziano. Ha l’aria di chi è appena rientrato in casa e non ha fatto in tempo a togliere giacca e sciarpona, o magari è solo molto freddoloso. «Alcuni di quei luoghi hanno storie strambe quanto i nomi. Truth Or Consequences, che si trova nel New Mexico, un tempo aveva un altro nome ma si è ribattezzata così nel 1950 in onore di un omonimo show radiofonico di successo. Uno pensa che per cambiare il nome di una città ci voglia almeno un referendum, a loro invece è bastato sapere che così avrebbero ospitato una puntata speciale dello show».
American Utopia, spiega Byrne, è «la celebrazione di tutto quello che ci connette», né più né meno com’era il concerto, tra le esperienze più vitaminiche degli ultimi anni (e liberanti, Byrne invitava tutti a tenere accesi i telefonini, girare video, fare foto, «li pregavamo solo di postare quelle dove eravamo venuti bene»). Ma lo è nel modo surreale e concettuale a cui l’artista ci ha abituato. Le pagine a volte sono quasi vuote, i disegni infantili di Kalman che galleggiano nel bianco: alberi, casette, corpi che danzano, coppie: «Spillo il mio cuore al tuo amore tesoro»; un cagnetto peloso e perplesso: «Ma non è la bellezza che cerchiamo».
«Tutto è cominciato dal sipario che Maira aveva disegnato per lo show» racconta Byrne. «È la prima cosa che il pubblico vedeva, in un certo senso lo spettacolo iniziava da lì: una tela piena di figure, quelle che ora sono nel libro. L’idea era di comunicare una sensazione simile a quella dello show, in modo semplice e diretto. I disegni sono belli, vero? Qualcuno ha suggerito che dovremmo farne della carta da parati».
Le case sono una sua incontenibile ossessione. Houses in Motion, Burning Down the House, Home (che apriva l’album con Brian Eno Everything That Happens Will Happen Today), Everybody Is Coming To My House. Una volta ne ha anche suonata una. A Stoccolma, nel 2005: un intero edificio suonato con spranghe di ferro battute contro le colonne, motori che facevano vibrare le travi, tubi soffiati come flauti. Il progetto si chiamava Playing the Building. Se casa sua fosse uno strumento, quale sarebbe? «Ah! Vediamo, sarebbe probabilmente delle percussioni. O il mantice di un organo, perché è pieno di spifferi. Vivo solo, per cui ho tutta la casa per me, non ho una stanza preferita, ma una sedia preferita dove leggo, questo sì. Il lockdown non mi è pesato, giro spesso in bicicletta. Ora il freddo è un po’ più rigido ma uscire è piacevole, ho visitato zone di New York dove non ero mai stato. Questa città è così grande, eppure andiamo sempre negli stessi posti».
Byrne è nato in Scozia, è diventato cittadino americano solo nel 2012 («per poter votare, un atto importante; alla vigilia delle ultime elezioni sono andato fino in Pennsylvania per dare una mano a registrare gli abitanti di una zona periferica perché votassero, ma ho scoperto che si erano già tutti registrati!»). A Manhattan è arrivato negli anni 70: «Di quel periodo rimpiango solo gli affitti bassi. Bastavano poche decine di dollari, un lavoretto part time, io per esempio facevo l’usciere di teatro. Per molti giovani artisti e musicisti fu un’opportunità unica. Ma per il resto, nessuna nostalgia. La città era orrenda, piena di criminalità, miseria». Lo ricorda nel suo memoir Remain in Love anche un altro ex Talking Heads, il batterista Chris Frantz; non si sono lasciati bene, Byrne viene dipinto come un manipolatore, ma è inutile chiedere cosa ne pensi. A un giornalista inglese ha risposto secco: «Non l’ho letto proprio per evitare di dover rispondere».
Il fatto, spiega, è che a lui piace guardare avanti. American Utopia era nata anche da questo, «perché ero stanco di pensare solo in negativo. Mi sono detto, ok, partiamo da come il mondo potrebbe essere». Di recente il suo blog giornalistico, Reasons to be Cheerful, ha figliato un nuovo progetto, We Are Not Divided: disegni fatti durante il lockdown, venduti per sostenere progetti educativi non profit. «Non siamo divisi, è solo che adesso non siamo uniti. È buffo pensare che qui, la presidenza Trump ha ignorato il virus e gestito le cose nel peggior modo possibile dicendo: vogliamo essere liberi. Di fare cosa? Di non mettere le mascherine. Di andare ovunque. E per non limitare la libertà di alcuni, hanno finito col togliere la libertà a tutti».
Nel libro c’è un omaggio al poeta dadaista Hugo Ball (il testo di I Zimbra dei Talking Heads viene da un suo poema nonsense) «che un secolo fa aveva spiegato bene come l’arte serva a ricordare al mondo che ci sono persone dalla mente libera. Credo in questo più che nell’arte che vuole indottrinare. Quale che sia il ruolo dell’artista oggi, non può non confrontarsi con la realtà. C’è anche un’altra citazione nel mio libro, è dello scrittore James Baldwin: 'Nonostante tutto quello che è avvenuto, nonostante tutto quello che sta avvenendo, penso ci sia ancora una possibilità'. Quando l’ho letta ho pensato: se con la vita che ha avuto, la povertà, la fatica, riesce a dire questo, allora tutti ci dobbiamo provare».
All’improvviso Byrne ridacchia. «Qual è il Paese più felice del mondo, la Finlandia, giusto? Ok. E cos’è che fanno per essere felici? Forse dovremmo farlo anche noi? A volte ne discuto con i miei amici, gli dico, scusate ma la felicità non è forse la cosa più importante? E loro: oh ma dai, non vorrai sul serio vivere come i finlandesi!».
Cos’è allora che rende felice lei? «Fare qualcosa che mi sorprenda, e una cosa che mi ha sorpreso di recente è il libro di Peter Godfrey-Smith, Other Minds (Altre menti. Il polpo, il mare e le remote origini della coscienza, Adelphi). E ora c’è anche un film, su Netflix (Il mio amico in fondo al mare). L’intelligenza dei polpi è stupefacente, sono degli alieni. Pensano, ma non come noi: la loro intelligenza è nelle gambe! Nelle mie canzoni a volte cerco di immaginare: come pensa un cane? Come sarà il paradiso per una gallina? Sì, è divertente, ma hey, è anche una cosa seria; perché parla di noi. Di come percepiamo le cose. Siamo meglio di un cane, o di un polpo? Io penso che siamo solo diversi».
Sul Venerdì dell'11 dicembre 2020
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