PALERMO. Massimo Valsecchi non sa che farsene della propedeutica architettonica. Parlando del suo palazzo-mondo, il più grande tra quelli nobiliari, comincia dal tetto: "L'unico ricostruito, dritto, lunghissimo, con la sua anima originale. Niente a che vedere con gli altri tetti restaurati di Palermo". Anche i complimenti scontati, sulla disarmante bellezza di Palazzo Butera dopo cinque anni di lavori che l'hanno resuscitato, lo lasciano indifferente. "Vede, qui lo scopo non è generare la meraviglia del visitatore. Noi vogliamo essere un motore di ricerca (nessuna parentela con Google e simili, dal momento che orgogliosamente disdegna computer e cellulare), un centro aperto a studiosi e curiosi per creare innovazione sociale in questa città e restituirle la dimensione internazionale che da troppo tempo ha perso" mi dice negli uffici al piano ammezzato dove da un lustro, generale nel suo labirinto, dall'alba al tramonto ha guidato la battaglia per far rivivere la residenza dei principi Branciforte, già padroni di mezza Sicilia. Una specie di risarcimento simbolico per il fatto che i novemila metri quadrati della magione hanno, dal '700, sequestrato l'affaccio dei palermitani sul mare. Ora la guerra è finita: il 12 gennaio il museo dovrebbe aprire definitivamente i battenti, offrendo un cospicuo assaggio della sterminata collezione privata che il settantaseienne Massimo e sua moglie Francesca Frua De Angeli hanno accumulato in oltre mezzo secolo. Ma l'uomo non è tipo da fasti triumphales. Lunga è la lista delle occasioni sprecate lungo la strada per realizzare la sua utopia, i passi indietro di potenziali partner, il sospetto iniziale della città. Meglio concentrarsi sull'oggi e preparare la prossima fase, la reconquista dell'adiacente Palazzo Pirajno.
Quella della seconda vita di Palazzo Butera è notizia vecchia. C'è un signore che ha la disponibilità di 25 milioni di euro, tanti servono per comprare dai 27 eredi della famiglia Moncada Branciforte il palazzo nella Kalsa e rimetterlo a nuovo con un cantiere di restauro che arriverà a mobilitare 120-130 operai. Numeri da grandi opere, pubbliche non private. Ed è subito mito. Valsecchi, "ex broker e collezionista" ha rimediato la quasi totalità del denaro vendendo Versammlung (assembramento, si direbbe oggi), un olio su tela 160×115 che il tedesco Gerhard Richter, tra i viventi più quotati, ha realizzato nel '66 raffigurando una folla in bianco e nero. Seguono interviste e ritratti sui giornali, spesso ripetitivi, dove il collezionista-oracolo dice cose condivisibili ma che risultano vaghe tipo "in un momento in cui politica e economia non riescono a dare risposte concrete forse soltanto l'arte può aiutare". Sì, ma concretamente come? Oppure: "Obiettivo è generare innovazione sociale attraverso l'arte, la storia, la cultura" (l'ha detto anche a me, poche righe sopra). O ancora che "l'immigrazione è un falso problema". Però con esiti sin troppo reali, chiedere a Salvini per credere. Sono venuto qui, selvaggio nel sinedrio degli specialisti, con l'intenzione di diradare la nebbia. Perché neppure gli amici palermitani che per primi me ne hanno parlato sapevano esattamente cosa ne sarà di questo posto straordinario. Proviamo a volare basso.
Il primo boccone in più che mi offrono è l'accesso al secondo piano quasi ultimato, quello dell'esposizione permanente. Mi accompagnano Carlo Gulli, trentenne storico dell'arte, e l'architetto Giovanni Cappelletti, che con l'ingegnere Marco Giammona costituiscono i fedelissimi di Valsecchi. Chiedo a loro dei criteri guida della collezione e gli aggettivi sono "originale" o "eclettica" (più tardi Valsecchi dirà di aver comprato "soprattutto quello che non conoscevo, quello che non capivo"). C'è una forte insistenza sull'avanguardistico design inglese dell'800, con mobili e accessori. Tra gli artisti che ritornano più spesso, i lari e penati della mostra, c'è David Tremlett, che ha affrescato di motivi geometrici le sale, il figurativo inglese Tom Phillips, i concettualisti francesi Anne e Patrick Poirier. Nelle sale giganteggiano opere di Gilbert+George, l'iconoclasta coppia della Swinging London. Ma poi spunta anche il vaso che George Bullock aveva realizzato per Napoleone a Sant'Elena, le foto che il land artist Hamish Fulton ha scattato in Nepal dopo decine di chilometri di marcia, l'acquerello veneziano firmato John Ruskin. Il tutto tenuto insieme da fili invisibili che i curatori vedono benissimo.
"Qui la missione non è sbigliettare" confessa candidamente Gulli "con i soliti Picasso o Kandinskij, ma favorire lo sviluppo sociale del quartiere". Dopo lungo dibattito han deciso che non ci saranno didascalie accanto alle opere, piuttosto libretti cumulativi in ogni stanza che i visitatori potranno consultare ("Arte da vedere, non da leggere"). Da principiante le dida mi sembrano salvagente sempre utili, e spesso deludenti nei musei italiani, ma "questo non lo è, tecnicamente; è una collezione privata da far conoscere".
Nel sottotetto, recuperato in tutto il suo splendore, hanno ricavato tre delle sette foresterie per ricercatori che vorranno venire a studiare le opere. Il tetto, visto dal torrino, ha effettivamente una campata monstre di un centinaio di metri lineari su cui sono state rimesse le tegole originali. Il primo piano è quello dell'abitazione privata dei Valsecchi. Il pian terreno sarà dedicato alle esposizioni temporanee, sempre alimentate dalla sterminata collezione. Il milanese Cappelletti, giustamente fiero delle soluzioni escogitate per rimettere in sesto il palazzo brutalizzato dai controsoffitti degli uffici regionali prima e dalle sale eventi delle vite precedenti, mi mostra una radice fuggitiva della lussureggiante jacaranda nel cortile che un operaio voleva segare e che lui è riuscito a valorizzare grazie a un inserto di vetro nel pavimento. E poi le vetrate realizzate da maestranze locali, così come un'ardita scala in ferro e tutto il resto, rigorosamente a km zero: "In pochi altri posti ci sono artigiani in grado di fare cose del genere. E quando ci siamo accorti che servivano degli scalpellini per lavorare le pietre del pavimento abbiamo pensato di fondare una scuola per loro qui nella Kalsa. Lo stesso per i tappezzieri". È il primo, tangibile indizio per capire di cosa parliamo quando parliamo di sviluppo sociale.
Il restante onere della prova lo lasciano al mecenate. È un uomo longilineo, con i capelli grigi pettinati all'indietro, una camicia a quadretti, pantaloni di tela beige e scarpe da barca. È evidente, almeno nel primo quarto d'ora monologante, che non brucia dalla voglia di interagire con il cronista. Poi, però, accetta la conversazione e ne abbassa il baricentro: "In questa fase economicamente non brillante, storia, cultura e arte sono le nostre uniche ricchezze. Rinnovabili, per di più, grazie allo studio che può valorizzarle, moltiplicarle". Gli eserciti di artigiani che ha arruolato ne sono la riprova: "Stuccatori, fabbri, falegnami esistono ancora. E sono, come l'arte, il connettore tra passato e futuro. Qui hanno lavorato come in una grande bottega rinascimentale. Il loro sapere va preservato e valorizzato: perché tanti giovani si intestardiscono nel cercare mestieri senza lavoro, ignorando questi? Ci sono tanti palazzi storici ancora da salvare in città". Ha per caso intenzione di comprarli tutti?
Sul Venerdì dell'11 dicembre 2020
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