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Olio di palma: l’olio della discordia alla ricerca della sostenibilità

L'olio della discordia continua ad essere il più richiesto e il più divisivo al mondo. L'olio di palma, l'olio vegetale più utilizzato a livello globale e contenuto secondo alcune indagini del Wwf in almeno il 50% di tutti i prodotti confezionati, continua ad essere al centro di un discorso di sostenibilità non privo di polemiche. Per le sue qualità uniche, la sua versatilità e i costi relativamente bassi, la produzione globale di questo olio è aumentata senza sosta negli ultimi cinquant'anni e si prevede che raggiungerà circa 108 milioni di tonnellate entro i prossimi cinque anni. Mentre ancora si discute sulle sue proprietà nutrizionali, fra chi lo elogia e chi lo critica come l'Oms che in tempi di pandemia indica come sia preferibile usare grassi insaturi al posto di questo prodotto, sul banco degli imputati ci sono soprattutto le coltivazioni dei palmeti da cui si ricava.
Vista l'enorme richiesta nell'ultimo mezzo secolo sono infatti cresciute a dismisura le coltivazioni per ottenere l'olio da palma in diversi Paesi del mondo, soprattutto Malesia e Indonesia. Qui, testimoniano immagini che hanno fatto il giro del globo, la necessità di produrre ha spesso messo in ginocchio le foreste pluviali e tropicali, privandole di biodiversità e riducendo gli habitat di diverse specie, fra i quali l'orango, animale diventato simbolo di chi si oppone all'espansione delle colture di palme. Per lo Iucn, Unione internazionale per la conservazione della natura, si stima che 193 specie in via di estinzione siano ulteriormente a rischio a causa dell'espansione delle piantagioni di palme e alcuni studi stimano che ogni anno tra i mille i cinquemila oranghi muoiano proprio a causa di questa espansione.

Dall'altra parte però l'olio da palma è un prodotto che dall'alimentare sino ai biocarburanti è protagonista dei nostri consumi e, a differenza per esempio di soia, caffè e altre colture impattanti, è particolarmente efficiente. Un ettaro di terreno può infatti produrre 3,3 tonnellate di olio rispetto per esempio a 0,4 tonnellate di soia: un fattore che ha aiutato alcuni Paesi in via di sviluppo a crescere a a livello di economia e occupazione.

Dal caffé alla soia, l'80% della deforestazione è legata ai nostri stili di vita


Si può dunque pensare a un futuro sostenibile dell'olio da palma, che continui a soddisfare il mercato senza però impattare sull'ambiente? In tal senso la strada intrapresa per poter continuare a usare l'olio da palma sembra essere quella della certificazione, un sistema che dovrebbe garantirne la sostenibilità.
Nonostante un serio problema di incendi dolosi, diritti dei lavoratori negati, deforestazione e conseguente aumento delle emissioni, da alcuni anni Malesia e Indonesia, principali produttori, stanno tentando di regolamentare le coltivazioni per renderle sostenibili e certificate. Una richiesta che arriva soprattutto dai Paesi che consumano il prodotto, come l'Europa e le decine di aziende, spesso alimentari, che usano e trasformano l'olio.

Di recente l'Unione per l'Olio di Palma Sostenibile, che riunisce diversi noti marchi e aziende internazionali, ha diffuso le stime del report annuale di Roundtable on Sustainable Palm Oil (RSPO) sostenendo che non tutto l'olio da palma è uguale e che è in forte crescita quello proveniente da produzioni sostenibili.
Se si guarda per esempio all'Italia, il report afferma che "il 92% dell’olio di palma utilizzato dall’industria alimentare italiana nel 2019 è certificato sostenibile" e "sempre più vicino all'obiettivo del 100% entro il 2020 fissato dalla Dichiarazione di Amsterdam". E anche il "restante 8% proviene comunque da produttori che hanno adottato politiche di sostenibilità NDPE, ovvero impegnati nella lotta alla deforestazione, allo sfruttamento delle torbiere, dei lavoratori e delle comunità locali".
Il rapporto specifica che l'Italia è oggi il quinto paese al mondo per numero di imprese che hanno aderito all'RSPO (226 aziende) e che la quota di olio da palma certificato è raddoppiata in soli tre anni. Indicando come cammino da seguire quello della "adozione dell'olio di palma sostenibile", le aziende sostengono inoltre che se oggi si smettesse di produrre quest'olio il "fabbisogno di terre aumenterebbe di una superficie pari a cinque volte l'Italia entro il 2050" dato che tutte le altre colture da olio "necessitano di un quantitativo maggiore di terreno rispetto alla quantità di olio prodotto".
Tutte unite nel sostenere che sia necessario porre fine alla deforestazione e allo sfruttamento collegato alle colture che hanno portato finora a una enorme perdita di biodiversità, anche alcune delle più famose associazioni ambientaliste italiane si dividono sul futuro dell'olio da palma.

Il Wwf, da sempre sostenitore di diverse campagne contro la deforestazione e per salvare gli oranghi, non è contrario per esempio all'olio di palma sostenibile garantito attraverso la certificazione RSPO, mentre invece associazioni come Greenpeace affermano che l'idea della palma sostenibile non sia attuabile.
Lo stesso Wwf a inizio anno nel suo rapporto Palm Oil Buyes Scorecard ha stilato una classifica delle aziende in grado di utilizzare o meno l'olio di palma in maniera sostenibile. Nessuna azienda ha raggiunto il voto massimo stabilito dal Wwf, che ha esaminato 173 rivenditori, produttori e società di servizi alimentari di diversi Paesi del mondo. Fra le tante aziende esaminate, l'italiana Ferrero è andata però vicina al massimo, raggiungendo un punteggio di 21,5 (su un massimo di 22) e "lanciando un segnale di incoraggiamento al mondo dell'industria sul fatto che una filiera di olio di palma sostenibile e priva di impatti sulle foreste è possibile", scrive il Wwf. Tra le altre imprese sulla buona strada, ma ancora lontane da una totale sostenibilità, per il Wwf ci sono Edeka, Kaufland, L'Oréal e Ikea mentre tra le italiane è stata esaminata anche Unigrà, che opera nel settore della trasformazione e vendita di oli e grassi alimentari, la quale per gli ambientalisti raggiunge un punteggio di 10.5 su 22, giudicato appena sufficiente, seppur sia stato riconosciuto all'azienda un impegno con Rspo nel raggiungere nuovi obiettivi di sostenibilità.
Legambiente recentemente si è invece concentrata sull'olio di palma nel biodiesel, dato che il 70% di quello importato in Italia è destinato a questo settore. L'Europa impone lo stop di olio di palma nei biocarburanti entro il 2030, ma l'associazione italiana, ricordando che c'è "più olio di palma nei motori che nei biscotti" e specificando i danni a livello ambientale e anche per le tasche degli italiani a livello di sussidi, chiede l'abolizione dell’olio di palma nella produzione di biocarburante già dal 1° gennaio 2021.
Per ora il Senato italiano ha approvato un emendamento per dire basta a olio da palma e sussidi pubblici al biodiesel dal 2023. Probabilmente però, anche dopo quella data, l'olio di palma continuerà a essere l'olio più richiesto e divisivo al mondo.Original Article

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