KWALE (KENYA) – Il luogo dell’appuntamento è uno scalcinato ristorante alla periferia di Kwale, sulla costa nell’estremo sud del Kenya. Mentre aspettiamo, un uomo sulla trentina si affaccia alla porta. Ha un cappelletto da baseball, la mascherina tirata sopra il naso e una giacca a vento grigia del tutto incongrua, per la temperatura sopra i 30 gradi. Dà un’occhiata in giro e se ne va. Lo stringer di Kwale si alza in fretta, poi ritorna: “È lui. Ma non si fida a parlare in questo locale. Lo dobbiamo seguire fuori città. L’interprete deve restare qui, a tradurre penso io”.
Il luogo numero due è uno spiazzo di terra rossa circondato da acacie, in campagna. John – non è il vero nome – parla con voce bassa, scrutando attorno ogni tanto. Quando dal folto esce un contadino, il giovane si interrompe e ne segue i movimenti, con gli occhi stretti.
Non è una vita facile, quella di un disertore degli Shabaab. John teme sia gli ex compagni del gruppo qaedista che i servizi di sicurezza kenyani. I primi, perché vogliono punire il tradimento e dare l’esempio. I secondi, perché – a quanto raccontano le comunità locali – non credono alle conversioni e preferiscono fare “sparire” senza processo chi è sospettato di simpatie jihadiste. La stampa kenyana parla di unità speciali antiterrorismo, composte da uomini in abiti civili, armati e con il passamontagna, che intervengono nella notte e portano via i sospetti. Qualcuno ritorna malmenato e traumatizzato, ma di molti non si sa più nulla.
Come sei finito fra gli Shabaab?
“Mi avevano promesso un lavoro, nel campo della sicurezza. Ero disoccupato da anni, i lavoretti occasionali non bastavano a nulla. Mi sono trovato con altri 15 giovani, non so neanche dove fosse esattamente il campo: ci siamo arrivati di notte, so solo che era in Somalia, in una zona desertica”.
E lì, che cosa è successo?
“Abbiamo dormito in tenda, l’indomani ci hanno condotto davanti al comandante. Un somalo alto con la barba, sui quaranta, che si faceva chiamare Yusuf. Quando abbiamo capito in che cosa consisteva il lavoro, abbiamo protestato, ma ci hanno fatto capire in fretta che non avevamo possibilità di tornare indietro. Nel campo c’erano oltre duecento giovani, nessuna donna”.
Quando è cominciato l’addestramento?
“Il giorno dopo l’arrivo. Facevamo attività fisica, corse, salti. Dopo tre settimane ci hanno dato i kalashnikov”.
Imparavate solo tecniche militari?
“No. Per esempio, mi hanno insegnato a guardare le persone e a capirne le intenzioni, studiandone l’atteggiamento, il linguaggio del corpo. Per questo ho voluto prima dare un’occhiata nel ristorante e poi spostarmi”.
Che cosa ti hanno insegnato sull’islam, che già non sapevi?
“Mi hanno fatto notare che nel mondo il potere è in mano ai cristiani, decidono tutto loro. Guarda il Natale, si comincia a festeggiare un mese prima. Invece la nostra festa principale, l’Eid el Fitr, dura solo tre giorni”.
Come hanno spiegato che nelle azioni si deve uccidere, mentre il Corano lo vieta?
“Uccidere gli infedeli è ammesso, se ci sono vittime musulmane è solo per sfortuna”.
Hai partecipato di persona ad attacchi?
“No”.
Ma che cosa raccontava chi ha preso parte ad azioni violente?
“Ci hanno spiegato da subito che ritornare dagli attacchi non era necessario. Molti non tornavano più. Ho parlato con i ragazzi sopravvissuti all’attacco alla stazione di polizia di Garissa, erano solo contenti di essere ancora vivi”.
Davano qualcosa per preparare chi partecipava alle azioni?
“Distribuivano pillole bianche, servivano a rilassarli, così dicevano”.
Quant’è la paga di uno Shabaab?
“A noi davano circa 300 dollari, in valuta americana”.
Come hai deciso di scappare?
“Pensavo alla mia famiglia, che non sapeva più nulla di me. E un giorno siamo fuggiti a piedi, io e un amico, abbiamo raggiunto Garissa e poi con un bus Mombasa. A casa credevano che fossi morto, quando sono tornato hanno macellato una vacca e dato una festa con i poveri del villaggio. Ma ai vicini hanno detto che ero stato a lavorare negli Emirati”.
Che ricordi ti porti dietro? Hai almeno memoria di una giornata serena nel campo di Al Shabaab?
“No, non c’è stato un solo giorno sereno. E il ricordo più significativo è questa cicatrice che mi attraversa la mano: quando ho tentato di rifiutare un ordine del comandante, mi hanno dato una coltellata”.
Che cosa diresti a un giovane tentato dall’idea di aderire agli Shabaab?
“Per un musulmano Jihad vuole dire impegno. Spargere sangue non è vero Jihad”.
Adesso l’intervista è finita. Puoi anche aprirti la giacca, senza continuare a nascondere se sotto hai qualcosa per difenderti.
“Ma no, ho la giacca a vento perché sono venuto in moto”. (Sorride, ma la giacca si apre solo a metà).Original Article
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