ROMA – La vita di Giulio Regeni è stata spezzata dopo giorni di interminabili sevizie e tormenti inflitti in una stanza dell'orrore. La numero "13", al primo piano di un villino degli anni '50 nel centro del Cairo. Un "garage Olimpo" dove vengono "trattati" i cittadini stranieri sospettati di "attività sovversive" e che ha il suo ingresso in via Lazoughly, sulla riva destra del Nilo, all'interno del compound dove ha sede il Ministero dell'Interno della Repubblica Araba d'Egitto. A due chilometri in linea d'aria dalla nostra ambasciata, cui, per nove giorni, dal 25 gennaio al 3 febbraio 2016, le autorità egiziane avevano ripetuto di ignorare chi fosse e dove fosse quel giovane ricercatore, friulano di Fiumicello, arrivato nel Paese nel settembre del 2015 per la sua ricerca di dottorato con l'università di Cambridge.
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Gli uomini che portano la responsabilità del sequestro, le torture e dell'omicidio di Giulio sono quattro ufficiali della National security agency: Sabir Tariq, classe 1963, generale presso il Dipartimento della sicurezza nazionale; Ibrhaim Kamel Athar, classe 1968, colonnello, direttore di ispezione presso la Direzione della sicurezza di Wadi-Al-Jadid; Helmy Uhsam, classe 1968, colonnello, già in forza alla Direzione della sicurezza nazionale; Sharif Abdelal Maghdi, classe 1984, maggiore del servizio presso la sicurezza nazionale. La procura di Roma ne chiede il giudizio con un atto di accusa di 94 pagine firmato dal procuratore capo Michele Prestipino e dal sostituto Sergio Colaiocco. E' un documento che chiude cinque anni di indagini e solleva il velo non solo sulle responsabilità materiali dell'omicidio Regeni ma anche su quelle politiche della magistratura e delle istituzioni egiziane che, in questi cinque anni, hanno consapevolmente e ostinatamente ostruito la ricerca della verità manipolando e occultando fonti di prova, costruendo ipotesi alternative al solo scopo di depistare. Un atto di accusa che non ha precedenti nella storia giudiziaria del nostro paese, che mette in mora la Repubblica araba d'Egitto.
Regeni, Prestipino: "Acquisito elementi di prova significativi, fatto di tutto in memoria di Giulio"
Cinque le testimonianze chiave raccolte in questi cinque anni dalla Procura di Roma, indicate dai magistrati con altrettante lettere dell'alfabeto greco: Alfa, Beta, Gamma, Delta, Epsilon. Tra loro, due decisive. Quella di un ex agente che vide Giulio bendato nella stazione di polizia di Dokki poco dopo il suo sequestro da parte di agenti della National Security la sera del 25 gennaio. E quella di un ex agente della stessa Nsa che, tra il 28 e il 29 gennaio, dopo il sequestro, vide Giulio torturato nella "stanza numero 13" di Lazoughly.
Si legge nel verbale del suo interrogatorio: "Era il giorno 28 o 29 (gennaio, ndr), ho visto Regeni in quell'ufficio 13 e c'erano anche due ufficiali e altri agenti, io conoscevo solo i due ufficiali. Entrando nell'ufficio ho notato delle catene di ferro con cui legavano le persone… Lui era mezzo nudo nella parte superiore, portava dei segni di tortura e stava blaterando parole nella sua lingua, delirava… Era un ragazzo magro, molto magro…Era sdraiato steso per terra, con il viso riverso… L'ho visto ammanettato con delle manette che lo costringevano a terra… Ho notato segni di arrossamento dietro la schiena, ma sono passati quattro anni, non ricordo bene i particolari. Non l'ho riconosciuto subito, ma cinque o sei giorni dopo, quando ho visto le foto sui giornali, ho associato e ho capito che era lui".
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