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Covid, l’altra faccia dell’epidemia: scuole chiuse e i 5 milioni di anni di vita persi

PRIMA o poi le scuole riapriranno definitivamente, in tutti quei paesi, compreso il nostro, nei quali sono state di volta in volta chiuse, semi-chiuse, alternate, dimezzate oppure a distanza nel corso della pandemia. E allora si potrà fare un bilancio serio su tanti fronti: da quello didattico a quello sanitario a quello politico e socio-culturale. Ma qualcuno i conti li ha già fatti. Sono i ricercatori guidati da Dimitri A. Christakis, del Dipartimento di Pediatria del Children’s Research Institute di Seattle. Secondo cui, nei soli Stati Uniti, la chiusura delle scuole ha comportato più di cinque milioni di anni di vita persi. Un’enormità. Un tributo pesantissimo, secondo lo studio apparso sul Journal of American Medical Association, che potrebbero pagare i ragazzini americani una volta adulti. Già, perché i livelli di istruzione sono in modo inequivocabile correlati alla durata della vita. Semplificando: più si studia, più si vive a lungo e in salute. Ecco perché – scrivono i ricercatori – le decisioni che riguardano la chiusura delle scuole nel lockdown dovrebbero sempre considerare anche l'associazione tra l’interruzione della didattica e la riduzione della durata della vita.

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Per calcolare l’impatto della chiusura delle scuole sulle vite dei più piccoli, i ricercatori hanno attinto a database pubblici, tra cui quelli dei Centers for Disease Control and Prevention, della US Social Security Administration e del Census Bureau. Lo studio ha considerato 24,2 milioni di bambini di età compresa tra i 5 e gli 11 anni, iscritti alle scuole pubbliche, che durante la pandemia hanno perso circa due mesi di istruzione. Questo “buco” nella didattica equivarrà, secondo i pediatri, a una perdita media di 0,31 anni nel livello di istruzione finale per i ragazzi e di 0,21 anni per le ragazze. Che nella popolazione scolastica generale conterà per 5,53 milioni di anni di vita persi.

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Valeva forse la pena tenere le aule aperte, anche a rischio di una maggiore diffusione dei contagi e dunque, prevedibilmente, un maggior numero di morti nel 2020? Secondo gli studiosi, sì: fino alla fine di maggio 2020, scrivono gli autori del paper, negli Stati Uniti si sono contati quasi 90 mila decessi da Covid-19, che equivalgono a un milione e mezzo di anni di vita persi. Se le scuole fossero rimaste aperte, aggiungono i ricercatori, a questo tributo avremmo dovuto aggiungere un altro milione e mezzo di anni di vita persi, sulla base degli studi che associano la chiusura a una minore diffusione del virus. In sintesi, tenere le scuole aperte avrebbe quasi certamente comportato una perdita di anni di vita decisamente inferiore a quella che in effetti si verificherà.

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Le conclusioni di questo ragionamento sono inevitabili: il tentativo di salvare vite umane chiudendo le scuole potrebbe non aver portato a un risparmio netto se si considerano i potenziali danni associati a questo intervento. Soprattutto perché, spiegano Christakis e colleghi, il prezzo non viene distribuito in modo uniforme sulla popolazione scolastica, e anzi, pesa di più a seconda del genere, dello status socioeconomico, della comunità di appartenenza. A pagare di più saranno infatti proprio le popolazioni più vulnerabili degli Stati Uniti: nelle scuole frequentate prevalentemente da studenti neri e ispanici solo il 60% ha effettivamente partecipato regolarmente alle lezioni online.

I motivi per cui chi studia più a lungo ha una aspettativa di vita più elevata sono noti da tempo. In primo luogo, un grado di istruzione più alto dà più chances di ottenere un posto di lavoro stabile e con benefit relativi alla salute, dalla copertura sanitaria – soprattutto negli Usa – al congedo retribuito per malattia. Al contrario, le persone con meno istruzione hanno più spesso occupazioni ad alto rischio con pochi benefici. Anche il reddito ha un effetto importante sulla salute, e i lavoratori con più istruzione tendono a guadagnare di più. Le famiglie con redditi più elevati possono acquistare più facilmente cibi sani, avere tempo per fare esercizio fisico regolarmente, mentre un salario basso, un lavoro precario e la mancanza di risorse associate al grado di istruzione possono rendere gli individui e le famiglie più vulnerabili nei momenti difficili, il che può portare a una cattiva alimentazione, alloggi precari e minore capacità di usufruire dei servizi sanitari.

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Ma chi studia di più sembra essere anche al riparo dallo stress relativo alle difficoltà sociali ed economiche, soprattutto se prolungate. Chi ha meno istruzione spesso ha anche meno risorse (per esempio una rete di supporto sociale o una buona autostima) per attenuare gli effetti dello stress. Ancora: le persone con un maggior grado di istruzione hanno maggiori probabilità di seguire uno stile di vita sano, di conoscere i loro bisogni di salute, di comprendere il linguaggio dei medici e dunque di essere aderenti alle prescrizioni, di comunicare in modo efficace con gli operatori sanitari. Infine, poiché le persone con meno istruzione hanno maggiori probabilità di vivere in quartieri a basso reddito, è verosimile che abbiano un minor accesso ai supermercati o ad altre fonti di cibo salutare e un eccesso di offerta di fast food, meno spazi verdi per incoraggiare l'attività fisica all'aperto, minor accesso a strutture sanitarie e, per chiudere il cerchio, scuole di minore qualità.

Quelle differenze che non si colmano mai

Sbaglia chi pensa che questo panorama sia tipico solo degli Stati Uniti. Un gigantesco lavoro pubblicato l’anno scorso dall’Istituto Nazionale Salute, Migranti e Povertà, l’Atlante delle disuguaglianze nella mortalità, mostra che il problema è anche tutto italiano. “Obiettivo dello studio – spiega Alessio Petrelli, responsabile della struttura epidemiologica dell’Inmp – era quello di valutare le differenze geografiche e socioeconomiche nella mortalità e nella speranza di vita in Italia”. Per realizzarlo, i ricercatori hanno utilizzato la base dati dell’Istituto nazionale di statistica (Censimento 2011) interconnessa con l’archivio nazionale dei decessi (2012-2014) per 35 raggruppamenti di cause di morte. “L’Atlante conferma a livello nazionale quello che già era emerso da altri studi condotti su singole realtà metropolitane (Firenze, Torino, Roma)”, continua l’epidemiologo. E cioè che chi presenta un livello di istruzione più basso ha una salute peggiore e maggiori probabilità di morire prima della media. A rimetterci di più sono gli uomini: le persone meno istruite di sesso maschile mostrano ovunque una speranza di vita alla nascita inferiore di 3 anni rispetto alle persone più istruite, mentre le donne perdono in media 1,5 anni di vita. “C’è anche un forte gradiente Nord-Sud: nelle regioni del Mezzogiorno, indipendentemente dal livello di istruzione, i residenti perdono un ulteriore anno di speranza di vita”, aggiunge Petrelli. Fra i principali gruppi di cause, si legge nell’Atlante, i differenziali geografici sono maggiori per le malattie cardiovascolari, le malattie respiratorie e gli accidenti, mentre sono minori per molte sedi di patologie tumorali. Al Sud, in particolare, si osserva un netto gradiente di mortalità in eccesso per le malattie cardiovascolari: vi sono aree in cui la mortalità tra i più istruiti è superiore a quella dei meno istruiti residenti in alcune aree del Nord. Al contrario, il gradiente è da Sud a Nord per quanto riguarda i tumori. L’Atlante 2019 è in via di aggiornamento, e solo tra qualche mese si potranno vedere gli eventuali effetti della pandemia. “Al momento – conclude Petrelli – non stiamo osservando grandi variazioni, ma la crisi economica, presente e futura, certamente non miglioreranno la situazione”.

Effetti peggiori sulle comunità chiuse

Lo studio di Christakis è interessante – aggiunge Maria Teresa Tagliaventi, sociologa dell’educazione all’Università di Bologna – perché è uno dei pochi che, seppure in chiave quantitativa e non qualitativa, esamina gli effetti a lungo termine dell’istruzione sulle aspettative di vita. Il tema è noto: l’assenza di scolarizzazione indebolisce il capitale umano, quindi incide sulla qualità e sulla quantità dell’esistenza. E’ vero, lo studio è molto “americano”, ma anche nel nostro paese si sono già verificati effetti analoghi. In particolare, spiega Tagliaventi, in Italia la chiusura delle scuole ha avuto un grosso impatto su alcune comunità tradizionalmente chiuse, come i Rom – quelli che vivono nei campi – o i Cinesi, che per proteggersi dalla pandemia si sono chiuse ancora di più, e molti bambini si sono persi per strada dal punto di vista scolastico. Insomma, continua la sociologa, il Covid-19 ha amplificato disuguaglianze già presenti, ha accentuato i fossati, ha approfondito i solchi che già separano i ragazzi italiani. Hanno pagato il prezzo più alto gli studenti delle classi sociali svantaggiate, provenienti da famiglie con un basso livello di istruzione, che frequentano scuole non attrezzate, per strutture e corpo docente, all’uso della didattica a distanza. Non dimentichiamo che nel nostro paese un quarto delle famiglie non ha accesso alla banda larga, e il 12,3% dei ragazzi tra i 16 e i 17 anni non ha alcun computer o tablet.

L'arretratezza tecnologica

C’è da dire che molti docenti hanno fatto del loro meglio per continuare la didattica, seppure a distanza. Ma gli apprendimenti, dice Tagliaventi, passano per tanti aspetti: per la relazione positiva con l’insegnante, per l’affettività, per il clima di classe. Riprodurre tutto questo in un ambiente virtuale non è facile. E anche in questo caso la pandemia ha approfondito i fossati. Alcuni insegnanti, i meno attivi dal punto di vista digitale, hanno chiuso i battenti. Altri ne hanno approfittato per rinnovare e sperimentare. E allora, cosa mancherà agli studenti che hanno visto chiudere le scuole? Certamente non le nozioni, spiega l’esperta: oggi si ragiona in termini di long life learning, quindi tanti saperi possono essere acquisiti nel corso della vita. A mancare sarà invece la capability, le competenze che migliorano l’inserimento nel mondo del lavoro, la capacità di stare al mondo, di usufruire dei servizi, di essere inseriti nel contesto sociale in modo partecipativo e propositivo, di sfruttare le risorse al meglio per sé e per gli altri. Queste competenze non si apprendono solo a scuola, ma anche a scuola. E sono quelle che alla fine costruiscono il benessere di ogni cittadino.

L'eduzione parentale

Qualcuno, per paura o in assenza di alternative, ha anche deciso di fare da sé. “E’ in grande aumento, a quanto dicono gli operatori dei servizi educativi, la richiesta di educazione parentale, cioè la scuola in famiglia, soprattutto nelle fasce medio-alte”, continua Tagliaventi. Si fanno piccoli gruppi autonomi, qualche genitore fa da docente, e si preparano i ragazzi all’esame. Ma la scuola non è solo uno strumento per trasmettere nozioni. E’ un luogo dove si costruisce il cittadino di oggi e di domani, dove si trasmettono valori e principi condivisi. La scuola in famiglia manca di tutto questo.

Adesso impariamo a usare i tablet

Per questo, conclude Tagliaventi, nei prossimi mesi o anni sarà necessario recuperare quello (e quelli) che abbiamo perso. “La pandemia ha anche promosso modalità diverse di fare scuola, ha fatto riflettere docenti e dirigenti. Ora è il momento di prendere in mano i tablet e insegnare a usarli, rafforzando le competenze telematiche e informatiche, anche quelle degli insegnanti”. Il rischio, altrimenti, è che piova sempre sul bagnato. Chi aveva vantaggi prima continuerà ad averli. Chi inseguiva si troverà sempre più indietro. Anche in termini di salute.

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