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Avere paura è naturale. E salva la vita

Quando un dik-dik sente il verso delle aquile, si mette a scrutare il cielo. Se invece il verso è quello degli sciacalli, la piccola antilope si guarda intorno e fa ondeggiare il naso, per coglierne l'odore. Questo intelligente adattamento che abbina un suono inquietante a una reazione differenziata a seconda del predatore è uno degli effetti di un'emozione cruciale per sopravvivere: la paura. A indagare sul tema, considerando un gran numero di specie e il modo in cui rispondono agli stimoli visivi e uditivi minacciosi, è l'etologo e biologo Daniel Blumstein, docente alla University of California di Los Angeles, nel saggio The Nature of Fear (Harvard University Press, pp. 237, euro 21,45). Si parte da una considerazione: la presenza dei predatori richiede adattamenti assai sofisticati.

Dik-dik (Madoqua guentheri) (Getty Images)

"La paura non è una cosa semplice, ma un'emozione che è stata cesellata dall'evoluzione nei millenni per rispettare un delicato equilibrio" spiega Blumstein. "Bisogna infatti che l'individuo presti molta attenzione ai segnali di pericolo, ma che d'altra parte non sia così terrorizzato da non lasciare mai la tana, altrimenti morirebbe di inedia". È necessario anche che l'animale non sia distratto dal panico: "L'attenzione è una risorsa limitata. Per esempio, quando la ghiandaia azzurra americana è impegnata a individuare semi o insetti nascosti dall'erba, risulta meno sensibile agli stimoli che di solito la spaventano" spiega Blumstein. "Qualcosa di simile accade anche alle marmotte dal ventre giallo: quando questi roditori stanno cacciando un rivale dalle vicinanze della loro tana – per difendere il cibo indispensabile a mettere grasso in vista dell'inverno – diventano particolarmente vulnerabili alla predazione".

Marmotta dal ventre giallo (Marmota flaviventris) (Getty Images)

Per le marmotte poi anche giocare è un'attività rischiosa: "Lo abbiamo scoperto registrando il verso d'allarme con cui questa specie segnala l'avvicinamento di un predatore e diffondendo queste registrazioni mentre un gruppo di marmotte era impegnato in diverse attività: cercare cibo, giocare, lottare, scrutare i dintorni" racconta Blumstein. "Abbiamo notato che quelle che giocavano tra loro non rispondevano al segnale d'allarme, o comunque decidevano in ritardo di tornare al sicuro nella tana sotterranea. Bisogna dire, però, che in qualche modo le marmotte sono riuscite a ridurre il rischio: infatti tendono a giocare vicino alle tane".

Wallaby tammar (Macropus eugenii) (Getty Images)

L'evoluzione, però a volte, invece che più prudenti, rende più fiduciosi. Succede in particolare alle specie che si sviluppano in luoghi privi di minacce. "È illuminante la differenza tra i wallaby tammar, piccoli marsupiali – pesano intorno agli intorno agli otto chili – che vivono in Nuova Zelanda, dove non hanno predatori, e quelli che vivono in Australia su Kangaroo Island, dove un predatore c'è anche se è unico: l'aquila" spiega Blumstein. "Abbiamo esposto due gruppi di canguri agli stessi stimoli, ovvero delle volpi imbalsamate messe su un carrello per simulare il movimento. I wallaby della Nuova Zelanda non hanno avuto alcuna reazione, quelli di Kangaroo Island invece si sono messi subito in allerta, "intuendo" che si trattaca di un predatore, anche se non avevano mai incontrato una volpe". Da qui la cosiddetta "ipotesi multipredatore" di Blumstein: in quegli habitat in cui una specie ha almeno un predatore, gli individui riconosceranno predatori anche di altre specie, perché si è radicata in loro, e si è in qualche modo generalizzata, la paura.
Ovviamente, le specie più smart e sociali lo sono anche quando si tratta di mettersi, e mettere gli altri, in allarme. "Così il cercopiteco verde, che vive in Africa, quando scorge minacce come rapaci, serpenti, o mammiferi, emette versi distinti a seconda del tipo di predatore" dice Blumstein. "Un fenomeno che si avvicina, fatte le dovute differenze, all'uso della parola". Gli etologi Dorothy Cheney e Robert Seyfarth hanno studiato a lungo, in Kenya, questi primati, che passano molto del loro tempo cercando cibo nella savana, dove rischiano grosso per la presenza dei grandi carnivori. Quando si accorgono di un pericolo, si rifugiano sugli alberi. Ma nel tragitto a terra, prima di salire sui rami, sono esposti. Per questo hanno sviluppato una serie di adattamenti, come vivere in grandi gruppi – dove il rischio per il singolo individuo è ridotto – e differenziare i segnali di allarme in base al nemico.
"Se avvistano un leopardo, i cercopitechi verdi emettono una serie di brevi versi tonali, se vedono un'aquila grugniscono. Per un serpente producono un verso simile a chut-chut" spiega Blumstein. E anche la risposta all'allarme varia. Nel caso dei serpenti, il verso che lancia l'allerta li spinge ad assumere la posizione eretta e ad avvicinarsi camminando a due zampe alla sentinella, scrutando la vegetazione per scorgere il nemico. Se il verso indica invece la presenza di leopardi, i cercopitechi fuggono sugli alberi arrampicandosi sui rami più alti. E tanto sottili da non reggere il peso di un leopardo".

Sul Venerdì del 4 dicembre 2020

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