"Appare necessario anche ai fini di una corretta informazione, in attesa della stesura della motivazione della sentenza, tenere doverosamente distinti i profili del movente di gelosia, dal delirio di gelosia, quale situazione patologica da cui consegue una radicale disconnessione dalla realtà, tale da comportare uno stato di infermità che esclude, in ragione elementare principio di civiltà giuridica, l'imputabilità". Lo scrive in una nota il tribunale ordinario di Brescia dopo la sentenza di assoluzione per Antonio Guzzini, che ha ucciso la moglie Cristina Maioli ed è stato prosciolto perché ritenuto incapace di intendere e volere. A quanto si apprende da fonti di via
Arenula, il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha demandato all'Ispettorato accertamenti sul caso. Sul caso della sentenza della Corte d'Assise che ieri ha assolto l'80enne Antonio Gozzini per l'omicidio di sua moglie Cristina Maioli, giudicandolo incapace di intendere e di volere perché preda di un vizio di mente dovuto a un "delirio di gelosia" alcune associazioni di donne, tra cui Non una di Meno Brescia, hanno organizzato questa mattina una manifestazione di protesta davanti al tribunale di Brescia.
di
Ilaria Carra
Nella nota, il tribunale ordinario di Brescia ricorda che il movente di gelosia è "ben noto alla corte assise di Brescia che proprio in ragione di tale concezione distorta del rapporto di coppia nel recente passato a irrogato in due occasioni la pena dell'ergastolo". Per quanto riguarda l'assoluzione di Gozzini, "nel corso delle indagini preliminari i consulenti del pubblico ministero della difesa hanno concluso concordemente, sostenendo che la patologia delirante di cui era ed è tuttora portatore Gozzini escludeva ed esclude in radice la capacità di intendere e volere con specifico riferimento al fatto commesso".
"Delirio di gelosia e depressione: bastano questi motivi per assolvere un femminicidio e cancellare due volte la vita di Cristina, insegnante amata, colpevole solo di avere condiviso con cura e sollecitudine la vita di un uomo violento. Basta con le sentenze ispirate all'ingiustizia patriarcale" recita uno dei cartelli esposti dalle donne presenti che definiscono "gravissima" la sentenza di ieri. Nonostante lo stesso avvocato di Gozzini abbia sottolineato come la sentenza non si basi su "normali sentimenti: non è la gelosia la giustificazione per la commissione di un reato", la sentenza sta facendo molta polemica. La procura aveva chiesto l'ergastolo, considerando invece il delitto basato su una forma di gelosia non legata all'incapacità di intendere e di volere.
"La recente decisione della Corte di Assise di Brescia che sostanzialmente non punisce un ennesimo femminicidio desta non poche perplessità anche se per una corretta valutazione dei fatti occorre leggere le motivazioni della sentenza", spiega all'Ansa Fabio Roia, presidente vicario del Tribunale di Milano e Ambrogino d'Oro nel 2018 per il suo impegno nel contrasto alla violenza sulle donne, precisando che ovviamente andranno attese le motivazioni dei giudici, ma chiarendo che anche con il dispositivo "si crera una sensazione frustrante e forse un messaggio poco corretto. Perché allora non adottare, per tali casi che sono ovviamente di grande interesse pubblico per la sensibilità dei temi trattati, una informazione provvisoria sul ragionamento che ha portato i giudici alla decisione? E' un metodo che viene già adottato dalla Corte Costituzionale e da quella di Cassazione e che serve molto a far capire all'opinione pubblica la decisione".
Certamente, spiega ancora Roia, "leggendo le poche notizie, sembra che l'uomo sia stato dichiarato incapace di intendere e volere perché i consulenti della difesa hanno riscontrato un vizio totale di mente che certamente non può risiedere negli stati emotivi e passionali (e la gelosia ne è il classico esempio) che per legge (art. 90 c.p.) non possono incidere sulla imputabilità". Per Roia "si possono allora sollevare alcune perplessità di fondo. Quando c'è un femminicidio si tenta sempre di percorrere la strada dell'assenza dell'imputabilità trasformando un movente culturale (uccido perché non accetto di perdere la cosa-donna) in un delirio di follia con una pericolosa medicalizzazione del processo che tende a trasferire la decisione a consulenti di parte, come sembrerebbe in questo caso, o a periti d'ufficio". In assenza di prove certe di un disturbo psichiatrico preesistente, conclude il magistrato milanese, "il ricorso ad indagini sulla imputabilità dovrebbe essere infatti visto come un fatto eccezionale e non già come una normalità del processo. Ciò avviene perché in presenza di un gesto percepito come fortemente anormale e brutale ci si aggrappa alla labile categoria della follia con conseguenze sul piano culturale e della giustizia a volte irrazionali".
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