L’immagine di Proust, puntellato di cuscini, riscaldato da bottiglie di acqua bollente, rifornito di fazzoletti puliti e del “solito materiale di scrittura”, come ce lo presenta nel suo memoir la cameriera Céleste, che per ultima prestò servizio nella sua casa, è un’immagine che parla di fragile isolamento.
“Non scorderò mai l’angoscia concentrata in certi momenti intollerabili e il peso di lunghe ore tetre… che rendevano la mia vita un incubo vivente… la mia incapacità a dispensare piacere tanto quanto l’impotenza a riceverlo”, scrive in una lettera alla direttrice della scuola dove aveva studiato anni prima una ventenne Charlotte Brontë, mettendo così, per la prima volta, nero su bianco la sua ipocondria giudicata “una terribile disgrazia”. È uno dei quattro testi in cui la scrittrice cita esplicitamente l’ipocondria: gli altri sono tutti romanzi, dove l’autrice fa coincidere la malattia con “una specie di depressione” e “paura per il peggio”.
Per esempio, in Jane Eyre, il più famoso, l’unica occasione in cui Brontë cita l’ipocondria è quando Mr Rochester allude a una sensazione morbosa di pericolo incombente, la notte prima del matrimonio tra lui e Jane: “Sei sovreccitata o sovraffaticata, questa è ipocondria Jane”, dice notando le guance arrossate e gli occhi che brillano alla luce del fuoco appena attizzato mentre la ragazza racconta di un’orribile apparizione avuta in sogno la notte prima. L’ipocondria ovvio, sostiene lui, l’ha resa “un soggettino apprensivo”.
E se al cinema il migliore ritratto dell’ipocondriaco ce lo ha regalato Woody Allen, con la variegata galleria di personaggi da lui interpretati nel corso degli anni che, nonostante le differenze, erano accomunati da questa caratteristica comune, nella letteratura tanti e illustri sono i personaggi che hanno sperimentato questo disagio. Ce li racconta in un documentatissimo saggio uscito ora per il Saggiatore, Vite di nove ipocondriaci eccellenti, che ne ricostruisce scrupolosamente vizi e virtù, il critico irlandese Brian Dillon.
Prendiamo per esempio il ritratto che dell’ipocondriaco ci fa Edgar Allan Poe, nel 1839, nel racconto La caduta della casa Usher, dove si sofferma su quell’“inquietudine che rende Usher oltremodo sensibile a qualsiasi tormento reale e immaginario, morbosamente suscettibile a pressoché ogni sensazione”. L’ipocondria, suggerisce la storia di Poe, è una sofferenza fisica e mentale, ma anche una forma di sensibilità acuta, una sorta di allergia al mondo fisico, una malattia dell’immaginazione con esiti grotteschi e fatali. “Riusciva a tollerare soltanto taluni cibi quasi privi di sapore, a vestirsi soltanto di certe determinate stoffe; il profumo dei fiori lo soffocava, la più debole luce gli torturava gli occhi e qualsiasi suono lo agghiacciava di spavento”.
Il suo personaggio è inoltre convinto che la vegetazione sia senziente: gli alberi che circondano la casa, la muffa che cresce sui muri. La malattia, conclude il narratore, è “ipocondria”. In parte Poe usa con ironia il lessico della medicina contemporanea, e non bisogna dedurre che credesse in un disturbo definito con precisione, ma la rovina di Roderick Usher è senza dubbio l’esito di una sensibilità eccessiva: verso le proprie sensazioni fisiche, la solitudine e la paura, e la personalità opprimente della casa che infine crollerà alle spalle del narratore in fuga.
Ma tra i malati “eccellenti” c’è anche un inaspettato Charles Darwin, il cui primo ricordo di vita consiste proprio in un improvviso dolore fisico. L’incidente lo racconta personalmente in un frammento autobiografico scritto nel 1838: aveva meno di quattro anni e si fece un brutto taglio di cui gli rimase la cicatrice. In gioventù Darwin del resto mostrò una sensibilità disastrosa – in previsione di una carriera in campo medico – per le sofferenze altrui. Da studente a Edimburgo mentre assisteva a due operazioni molto brutte, raccontò in seguito, eseguite senza anestesia, non riuscì a sopportare la vista e dovette lasciare la sala. E prima di salpare sulla Beagle era terrorizzato dal mal di mare e, una volta a bordo, le sue paure peggiori si avverarono. I metodi con cui cercò di curarsi in quegli anni includevano una dieta a base di biscotti e uvetta, menta piperita, luppolo, carbonato di sodio e acqua di lavanda.
Tornato a casa aveva ricominciato a soffrire di palpitazioni al cuore, mal di testa, sconvolgimenti gastrici e di una sensazione generalizzata di turbamento fisico, sintomo questo che scollegato da un dolore preciso ha una lunga storia tra gli ipocondriaci. Un feroce mal di testa minacciò addirittura di rimandare il matrimonio di Darwin, nel gennaio 1839, con la cugina Emma Wedgwood. In seguito, rimase apatico e inquieto: ma i suoi anni di invalidità più o meno grave erano appena cominciati.
“La cattiva salute mi ha risparmiato le distrazioni della società e del divertimento” scriveva: l’ipocondria sarà per lui la scoperta di come sfruttare l’infermità. Nel suo diario dal 1849 al 1855, sessantaquattro blocchi di fogli a righe, riassume i suoi dolori: il sintomo più frequente era la flatulenza abbreviate come “flat” o “attacchi di fl” o semplicemente “attacchi”, tanto che qualcuno ha pensato che Darwin soffrisse forse di attacchi di natura epilettica. Anche i foruncoli erano oggetto di studio accurato: da ogni eruzione scaturiva un piccolo racconto. Tutto ciò era accompagnato da paura, brividi e sensazioni di irrequietezza che, se pure non hanno influito seriamente sul ritmo del suo lavoro, spesso gli impedivano di viaggiare per partecipare a incontri professionali o riunioni di famiglia.
Ma forse tra tutti quello che più ha saputo volgere la malattia al servizio della sua attività di scrittore è stato proprio Proust. Pensiamo al suo isolamento dal mondo, all’organizzazione ossessiva che esigeva di tutti gli spazi domestici: tutto ciò suggerisce come l’ipocondria fosse per lui un tratto essenziale della sua vita lavorativa, oltre a divenire un tema ricorrente del romanzo che lo ha consacrato. Si ostinava a credere che la sua asma – il primo attacco risale a quando non aveva ancora dieci anni – fosse psicosomatica o autoindotta. Il suo autoisolamento “dall’influsso velenoso” dei diversi pollini e delle polvero lo allontanò pure dai benefici della luce e dell’aria. La combinazione di asma e febbre da fieno instillò in lui l’impressione di una speciale sensibilità. Che cosa esattamente spaventava Proust? Nella vita quotidiana erano la vista, i suoni e gli odori nelle sue immediate vicinanze. Il naso di Proust era così sensibile che sul comodino erano riposti solo i migliori fazzoletti. Era altrettanto puntiglioso con gli asciugamani che dovevano essere messi venti o venticinque per volta nel bagno vicino alla sua stanza, scartati dopo una singola leggere passata perché se usati due volte gli screpolavano la pelle. Anche i suoni lo tormentavano. Il boulevard Haussmann, su cui affacciava la sua casa, non solo era fiancheggiato da ippocastani carichi di polline a primavera, ma era una delle principali arterie della città, non distante dal grande magazzino Printemps. E fu così che Proust scelse di diventare un recluso, decidendo di dedicarsi interamente alla sua Recherche.
Genio e ipocondria dunque, malattia che fa rima con creatività, perché quell’isolamento, tanto cercato, bramato, ipotizzato come unica barriera da opporre alla paura e alla nevrosi, altro non è che la condizione possibile – in molti casi l’unica – in cui coltivare la propria ispirazione. È questa la tesi sostenuta – che esiste un legame tra creatività e (in genere cattiva) salute – per tutto il libro da Brian Dillon esplorando le vite dei suoi “ipocondriaci eccellenti”. E tra questi, oltre agli scrittori già citati, non poteva mancare Andy Warhol, ossessionato com’era a un certo punto della sua vita dalle macchie rosse che gli erano comparse sul naso e incapace di uscire senza la parrucca. Paura, isolamento, nevrosi, ci dice l'autore, altro non sono allora che l’anticamera dell’ipocondria. Che tutti (o quasi) abbiamo provato o proveremo, almeno una volta nella vita, ma non tutti siamo riusciti – o riusciremo – a trasformare così bene sintomi e manie in grandi opere d’arte.
Il libro
Vite di nove ipocondriaci eccellenti di Brian Dillon (il Saggiatore, traduzione di Alessandra Castellazzi, pagg. 336, euro 24)
Original Article
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