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Patti Smith: “Quanta strada ancora da fare per riuscire a essere liberi”

Scrittrice, cantante, performer e pittrice, se chiediamo a Patti Smith quante donne convivano in lei, risponde con parole di Walt Whitman: "Conteniamo moltitudini". Testimone di una New York di stanze in affitto per pochi soldi e "droghe che hanno fatto fuori un sacco di gente", entrò nel mondo beat e nel circolo Warhol quando la fabbrica di biciclette del New Jersey dove lavorava chiuse i battenti e lei, a 19 anni, si trasferì a Manhattan. Era il 1971, e il fotografo Robert Mapplethorpe, che sarebbe diventato un’icona gay, la spinse a cantare le sue poesie e fu uno dei suoi grandi amori. Altro amore, il drammaturgo Sam Shepard. E per il chitarrista Fred Sonic Smith, che divenne suo marito, abbandonò il mondo artistico e si ritirò a Detroit, a crescere i figli di entrambi. Sonic morì, e per "sfamare" quei figli, Smith tornò sul palcoscenico. Aveva 44 anni. A 55 iniziò a pubblicare le proprie memorie. Just Kids (Feltrinelli, traduzione di A. Mari) racconta, con tenerezza e crudezza al tempo stesso – spiega che Mapplethorpe faceva il marchettaro per pagare l’affitto – la loro storia d’amore, che il fotografo stesso le chiese di scrivere, dal letto di morte. Lei riuscì a farlo nel 2010, 21 anni dopo che lui morì di Aids. Indossa abbigliamento maschile, rappresenta l’indipendenza e la saggezza del saper vivere con poco. La conversazione che facciamo è telefonica. Parla dal suo appartamento di New York. Le chiedo se sta tenendo tra le mani una tazza di caffé – il suo "unico vizio" appare di continuo nei libri che scrive (l’ultimo: L’anno della scimmia, uscito per Bompiani lo scorso mese di luglio, nella traduzione di T. Lo Porto) e Lavazza l’ha nominata «ambasciatrice culturale». Risponde di sì: «Nero, senza zucchero e con un pizzico di cannella».
È scesa in piazza a cantare, per spingere la gente ad andare a votare alle presidenziali. Nel 2016 ha detto che le elezioni le avevano vinte quelli che erano rimasti zitti. Queste, chi le ha vinte?
«La gente che ha parlato. Non aveva mai votato così tanta gente. Che la gente si sia mobilitata è un trionfo. Siamo una società che a volte deve svegliarsi».
L’amore – per il partner, per il suo cane o per il ricordo dei suoi genitori – definisce la sua scrittura. Ha sentito il bisogno di salire su un palcoscenico e prendere a calci ogni cosa, per controbilanciare il peso di tutto questo amore?
«È difficile che uno possa esprimere l’amore che sente, se non esprime la propria rabbia. La rabbia di solito è frutto della ricerca della verità, per questo la gente protesta nelle strade e nelle piazze. E la musica che facciamo comunica tutte queste emozioni».
Nella lista degli amori lei mette sullo stesso piano Bambi, il suo cane, e il drammaturgo San Shepard.
«Sono due dei miei preferiti. Bambi si lasciò investire da un camion quando stavamo per darlo in adozione perché mia sorella più piccola era allergica. Avevo preso del cibo ed ero uscita con lui un giorno intero; siamo tornati nei posti in cui eravamo stati felici. Al rientro, si è messo davanti al camion di chi lo avrebbe dovuto adottare. Sam e io, invece, siamo stati una coppia selvaggia. Su di lui ho sempre potuto fare affidamento. Alla fine, quando si è ammalato di Sla, sono andata a dargli una mano. Eravamo in cucina. Bevevamo caffè. Gli ho fatto un panino e lui mi ha detto: 'Patti Lee, siamo diventati una pièce di Beckett'. Mi chiamava sempre con il mio secondo nome. Soltanto mia madre, Johnny Depp e lui lo facevano».
Lei è inclassificabile, ma come artista non è mai stata messa in discussione.
«Seguendo il consiglio datomi da William Burroughs, ho cercato di preservare il mio nome e non ho mai mentito».
È stata invece messa in discussione sul piano personale, quando ha avuto una storia con Mapplethorpe e certa stampa ha pubblicato che era lesbica.
«Mi hanno criticata anche certe femministe, quando mi sono trasferita a Detroit con mio marito per prendermi cura dei figli. C’è molta strada da fare per riuscire a essere liberi. Lo si è quando ci si interroga su ogni decisione. Alcune persone vanno alla ricerca di un’identità nell’appartenenza a un gruppo, ma è dentro di te dove la devi cercare. Diventare madre non mi ha fatto sentire oppressa. Capisco però che possa accadere ad altri. Per me il sacrificio è parte della nostra evoluzione di esseri umani. Quando ci si sacrifica, si cresce».
Si è sacrificata per amore di Mapplethorpe?
«No. Assolutamente no. Ci siamo conosciuti a vent’anni. Abbiamo avuto una relazione da giovani amanti. Non ho mai pensato che lui stesse mettendo in discussione la propria sessualità. Nemmeno io avevo molta esperienza. Più tardi lui ha avuto il coraggio di pensare a una serie di cose. Eravamo alle prese con questioni fondamentali, sapendone molto poco. È stato Mapplethorpe a chiedermi di raccontarlo».
È scioccante che uno come lui, un emblema della rottura di ogni schema, patisse di un’autorepressione così forte.
«È scioccante oggi. Nel 1968 nascondere la propria omosessualità era normale. I giovani venivano rinchiusi negli ospedali psichiatrici, se si dichiaravano omosessuali. Era uno stigma. E lui voleva diventare un artista e salvare la nostra relazione. Non sapevamo nient’altro».
Sapevate poche cose, ma vi era chiaro che il vostro amore fosse superiore a tutto il resto.
«Credevamo in noi stessi attraverso l’altro. Quando qualcuno ripone in te quel tipo di fiducia, è un sentimento che dura tutta la vita. Ancora oggi, se mi sento giù torno al ricordo di quegli istanti e mi dà forza. Uno può ricorrere alla memoria per farsi forza».
Lei vive allo stesso modo sia dentro i suoi pensieri che nella realtà?
«Vivo nel passato e nel presente. Nella mia testa e per strada. A volte guardare indietro è doloroso. Ho perso così tante persone: mio marito, Robert, Sam, i miei genitori, il mio cane, mio fratello… Altre volte invece una foto oppure un libro mi consentono di riportarli nel presente, mi restituiscono quella persona per un momento. L’immaginazione serve a viaggiare verso ciò che non conosciamo e verso ciò che conosciamo. Ha questo potere. E faremmo male a non servircene».
Con Mapplethorpe vi siete conosciuti quando lei, a 19 anni, si era trasferita a New York.
«Lavoravo in una fabbrica di biciclette che aveva chiuso i battenti. Cercavo lavoro. Arrivai con quel che avevo addosso e nient’altro, ma c’erano i ristoranti e sapevo che avrei trovato qualcosa. Mi diedero lavoro in una libreria, ma fui costretta a dormire per strada una settimana perché non avevo i soldi della cauzione per affittare una stanza. La scarsità non mi spaventa, ci sono cresciuta insieme».
Ha fatto la fame, da bambina?
«Ho imparato cosa fosse la fame e a non sprofondare per questo motivo, perché prima o dopo il cibo in casa ricompariva. Affrontare le difficoltà per me non è stato difficile come può esserlo per altre persone. Io sapevo resistere. Oltretutto ero una romantica. Associavo l’essere artista al sacrificio. Pensi a Van Gogh. Avevo questa idea: dovevo essere disposta a una vita di sacrifici se volevo diventare un’artista».
Credeva che fare la fame fosse il primo passo da compiere?
«Ero un’ingenua, ma accettare il sacrificio ti rende più forte. Robert proveniva da una famiglia del ceto medio e per lui fare la fame era insopportabile».
Si descrive come "una cattiva ragazza che tentava di fare la brava". E Mapplethorpe come "un bravo ragazzo che tentava di sembrare cattivo".
«Ero scaltra. Ho dovuto svegliarmi e imparare a rubare un po’, nulla di serio: agguantare del cibo e correre via. Robert un gesto del genere non riusciva a concepirlo. Era sveglio, si applicava…era il ragazzo di belle speranze della sua famiglia. Ma lui voleva essere altro. Per questo voleva fare il cattivo, per allontanarsi da ciò che gli altri si aspettavano da lui».
Perché in campo artistico l’essere buoni gode di pessima reputazione?
«Mitizziamo gli aspetti maledetti della creazione. Io ho ricevuto una rigorosa educazione basata sulla Bibbia. Imparai che essere buoni riguardava la capacità di sacrificarsi per una causa più grande di noi. Ma capii anche che non sarei mai diventata una santa».
I suoi genitori erano testimoni di Geova?
«Lo era mia madre. Mio padre non era religioso, ma leggeva la Bibbia. Credeva che fosse grande letteratura, e mi trasmise quell’idea».
Ha avuto un figlio a 19 anni e l’ha dato in adozione. L’ha rivisto?
«Posso rispondere in privato?»
Certo, ma glielo chiedo perché parla di questo fatto nel suo libro di memorie e dice che non c’è giorno in cui non pensi a lui.
«Sono riuscita a mettermi in contatto con lui. Mi ha detto che voleva far parte della nostra famiglia, ma in modo privato. Ho risposto alla sua domanda?».
Ne ho un’altra: preferisce che io non accenni a questo argomento quando uscirà l’intervista?
«Di questa informazione faccia pure ciò che riterrà più utile per tutti».
Tra i suoi modelli cita sempre Jo, la sorella scrittrice di Piccole donne, e Jim Morrison, il cantante di The Doors. Notevole combinazione di nomi!
«Morrison mise in contatto la poesia e il rock, ma chi mi indicò davvero il cammino fu Bob Dylan, ed è stato perché, semplicemente, ha sperimentato di tutto. Mi sembrava Picasso, non ha mai smesso di cambiare. Quando il tuo modello è qualcuno che cambia, il sottotesto è: devi cercare la tua strada in modi diversi».
Per questo perse il filo mentre cantava A Hard ­Rain’s A-Gonna Fall, quando andò a ritirare il Nobel per conto di Dylan?
«È stato umiliante. L’orchestra suonava, i sovrani mi guardavano, la telecamera mi stava riprendendo e ho provato orrore. Non mi aveva mai intimidito salire su un palcoscenico. Ma la cosa davvero straordinaria avvenne dopo: ricevetti una valanga di messaggi. Il lapsus aveva reso umana la mia performance. I momenti che spiegano la nostra umanità sono quelli che ci toccano dentro. Imparai una lezione: la gente perdona un errore in pubblico se sei onesto e racconti cosa ti sta capitando».
Mette in relazione l’arte e l’audacia.
«Burroughs lo diceva: 'Un artista vede ciò che altri non vedono'. Robert voleva fare qualcosa che nessuno avrebbe fatto».
E lei?
«Per me non si tratta di arrivare dove nessuno è mai arrivato. Credo che l’arte ti avvicini a ciò che la gente chiama Dio. Da artista, cerco rivelazioni. Per me l’arte è un viaggio di scoperta».
Preferisce gli artisti che trasformano il loro tempo, a quelli che ne sono il riflesso.
«Io voglio che l’arte mi porti oltre, rispetto al mondo in cui mi trovo. Non leggo molta non-fiction, a meno che non debba studiare qualcosa, perché soltanto la fiction lascia spazio all’improvvisazione e all’inatteso. Con la musica mi succede la stessa cosa. Preferisco ascoltare Coltrane, e che sia ogni volta diverso. Mi piace di più quel che si ridefinisce di continuo, rispetto a ciò che rimane inalterabile».
Come artista, che cosa l’ha trasformata?
«Ho una band e sono una donna. Sono passata dallo scrivere poesia a cantarla su un palcoscenico, trasformandola in rock. Le uniche regole che seguo sono quelle del decoro. Quando ho scritto Just Kids ho voluto farne un libro responsabile. Tutto quel che contiene è vero. Non solo quello che fece Robert [Mapplethorpe] o il tipo di rapporto che avevamo. Anche tutti i dati sulle librerie o sul prezzo di un hot-dog. Non è un lavoro di fantasia: è andato tutto davvero in quel modo. Ma al di là del libro, che Robert mi chiese di scrivere, rimango fedele alla mia ricerca, non ai fatti».
Il Chelsea Hotel è stato la sua università?
«Non ho portato a termine gli studi, ma lì avevo il professor William Burroughs o il professor Allen Ginsberg, le grandi menti di quel momento storico, lì, nella stanza accanto».
Da bambina era una lettrice forte. Perché non è andata all’università?
«Mi ero iscritta, ma dovevo lavorare in fabbrica. Non ero abbastanza brava da ottenere una borsa di studio. Non riuscivo a sforzarmi su quel che non mi piaceva. Mia madre lavorava tutto il santo giorno come cameriera e mio padre era un operaio. Ma non avevano pregiudizi. E questo li rendeva credibili. Sono cresciuta in un ambiente di carenze materiali ma non mentali. Litigavano di continuo. Spesso per i soldi. Ma sono sempre rimasti insieme, e non perché avevano dei figli, ma perché ridevano insieme».
S’impara qualcosa dalla scarsità?
«È una forma di romanticismo e una realtà. Non necessito molte cose. L’altro giorno ero con mia figlia e mi hanno chiesto l’autografo di un libro. Indossavo una camicia a righe uguale a quella della foto del libro, che era del 1972. Mia figlia mi ha detto: Guarda, sei la stessa persona».
E lo è?
«Credo all’evoluzione, ma vedo che i miei lati eccentrici continuano a essere gli stessi».
Si veste ancora nei negozi di seconda mano?
«Acquisto molto poco. Uso ancora camicie di trent’anni fa e un’amica mi confeziona le giacche. In genere porto abbigliamento da uomo».
Quando era fidanzata con Mapplethorpe, lei portava la cravatta e lui i pantaloni di lamè.
«A lui sì piaceva farsi bello. Per me i vestiti da uomo sono più leggeri. In genere sono più comodi e ti consentono di muoverti. Il minimo che chiedo all’abbigliamento è che non mi opprima».
Ha vissuto circondata dalle droghe dei suoi amici, ma la sua unica dipendenza dichiarata è il caffè.
«Non ho mai avuto dipendenze perché sono cresciuta con una madre che fumava due pacchetti di sigarette al giorno e quando non aveva i soldi per comprarsele la vedevo piangere dall’ansia. Decisi allora di non voler dipendere da qualcosa che, se mi mancava, mi avrebbe fatta stare così male. Oltretutto ero una bambina dalla salute cagionevole. Ho avuto la tubercolosi e mia madre ha dovuto combattere per tenermi in questo mondo. Non potevo certo andare a New York a gettare alle ortiche tutti quegli sforzi! Più tardi, ho visto morire gli amici. Janis Joplin aveva solo pochi anni più di me ed è morta di overdose. Forse ero una romanticona sulla faccenda della fame da patire per diventare artisti, ma non lo sono mai stata a proposito del morire giovani. Sono una sopravvissuta. Ho 73 anni e spero di vivere fino ai 93».
Però forse mitizza il caffè: ha dato soldi a un cameriere perché aprisse un locale per conto proprio.
«E per poco non ne ho aperto uno mio. Lo volevo chiamare Caffè Nerval: un posto piccolino, che servisse solo caffè, pane e olio d’oliva».
Il business perfetto!
«L’amore per il caffè mi viene dall’infanzia. I miei genitori lo bevevano appena svegli e a noi non lo davano. E questa cosa mi affascinava».
Nerval, in Aurélia, scrive: «I sogni sono una seconda vita». È così anche per i suoi ultimi libri?
«Sono una sognatrice diurna. A volte penso a un certo appartamento-studio a New York, un locale che mi piace da morire. Non me lo posso permettere, ma sogno un’anziana che me lo regala perché lei non ne ha più bisogno. Mi diverto molto a immaginare. L’ha detto anche Stevenson: siamo in due: uno cammina per il mondo, l’altro, in sogno».
Nei suoi libri racconta problemi di ogni tipo, ma non quelli della sua famiglia. Non ne avevate?
«Certo che ne avevamo. Mio marito è morto quando i nostri figli avevano 6 e 12 anni. Di perdite ne sappiamo molto, ma non dimentico mai, nemmeno per un istante quanto stia soffrendo la gente nel mondo. Quando ero giovane non volevo nient’altro che diventare un’artista. Non aspiravo a formare una famiglia, ad avere dei figli. Però l’ho fatto e in quel modo ho esplorato un sentiero che mi avrebbe salvato la vita. Proteggere l’infanzia dei miei figli ha fatto sì che la mia empatia si allargasse».
Per parlare del razzismo ha descritto Billie Holiday con la gardenia, il cagnolino chihuahua e il vestito stropicciato dopo aver dormito su una panchina, quando non l’hanno fatto entrare in un albergo.
«Non sono un’attivista come Greta Thunberg o come mia figlia, ma tento di usare la mia voce».
Ha scritto di aver saputo chi fosse Pessoa non da quel che aveva scritto ma da ciò che aveva letto.
«Alla fine sei ciò che conservi. E nella sua biblioteca Pessoa aveva Blake, Baudelaire e dei romanzi gialli».
Che cosa deve avere uno scrittore per rimanere nella sua, di biblioteca?
«Una lingua. Rimbaud sta con me da quando avevo 19 anni. Anche Nerval. Sono guide. Non ho avuto bisogno di capire tutto quel che dicevano. L’importante è che qualcosa ti giunga. La poesia è scritta in un codice segreto che a volte è faticoso decifrare».
Cosa ne pensa della premio Nobel Louise Glück?
«In tutta onestà devo dire che non era entrata nel mio radar. Ma la leggerò».
Si è sempre sentita libera?
«Sì. Durante la pandemia ci ho riflettuto: non ho mai smesso di sentirmi libera, nonostante fossi rinchiusa. Credo sia un privilegio, una conquista mentale che si raggiunge quando si dedica la propria vita a non dare fastidio e a fare cose che ci permettono di crescere come persone».
E la sua rabbia, dove la mette?
«Sul palcoscenico, quando sferro il calcio. Non sono vendicativa. Mi sono sbagliata e sono stata perdonata. Tento di fare la stessa cosa. Ma non chiedo scusa per essere così, come sono, e quando mi arrabbio con Trump o con i dittatori degli altri Paesi scendo in piazza e protesto».
(Copyright El País/Lena- Leading European Newspaper Alliance. Traduzione di Monica Rita Bedana)
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