Un trucco esagerato, quasi clownesco. Gli occhi enormi, pesantemente bistrati di nero e indaco. Le labbra carnose, di un vermiglio prepotente che contrasta con i denti d’oro e la pelle nera. I capelli addomesticati dalla liscivia e messi in piega come una diva del muto. Il seno generoso che ballonzola dentro lo scivoloso, abbondantissimo abito. Quando Ma Rainey (1886-1939) comincia a cantare, entrano in azione centotrenta chili di blues.
Ma Rainey’s Black Bottom, il film che esce il 18 dicembre su Netflix, protagonista Viola Davis (Tony Award e premio Oscar per Fences, con Denzel Washington, rispettivamente a Broadway e al cinema) racconta un frammento di vita (una sola seduta di registrazione) dell’artista la cui biografia si confonde con la leggenda (in quegli anni già sentiva vacillare il trono con l’ascesa di Bessie Smith, futura imperatrice del blues, di dodici anni più giovane).
Un’interpretazione mozzafiato – potrebbe fruttarle il secondo Oscar – sottolineata da un montaggio serrato, soprattutto nelle scene in cui la diva e la sua band ci danno dentro (Viola Davis ha messo su parecchi chili per interpretare Ma Rainey e, appoggiandosi a una corista, riesce anche a ruggire quel potentissimo blues). Da nomination, nel ruolo dell’ambizioso trombettista Levee, anche l’attore Chadwick Boseman nel suo ultimo ruolo cinematografico; è morto di cancro a 43 anni lo scorso agosto.
Chicago, anno ruggente 1927: i bianchi sono già da un pezzo ubriachi di charleston, i neri, in piena jazz age, si scatenano col black bottom – nome del ghetto nero di Detroit, ma anche di uno stomp travolgente di Jelly Roll Morton che fa ballare e sculettare. Rainey ha più di quarant’anni, la chiamano mother of the blues, la madre del blues. Nessuno ha ancora mai inciso quella musica, la sua carriera si è consumata tra minstrel e vaudeville, varietà itineranti in cui la presenza scenica deve essere impressionante e imponente, la voce stentorea: non ci sono microfoni né amplificatori, gli spettacoli spesso si tengono all’aperto, “buca” solo chi riesce a farsi ascoltare (e vedere) anche da quelli delle ultime file.
La musica dei neri è effervescente e contagiosa, i loro balli scandalosi; i bianchi li trovano peccaminosi, dicono che è farina del diavolo, e intanto, invidiosi e curiosi, vanno a sbirciare e ne restano ammaliati. È questo il potere dei primi cantanti di blues: l’audience sempre più vasta e l’inevitabile interesse della nascente industria del disco: produttori bianchi, astuti e malandrini, i primi microfoni da crooner, le lacche incise dal vivo; voci e orchestre a suonare in quei seminterrati dove i pionieri della discografia cercavano di imprigionare nei solchi del disco le voci dei più popolari cantanti di giro – un, due, tre: attacco, canzone, buona la prima.
Tratto dal dramma di August Wilson messo in scena nel 1982, ripescato da Denzel Washington (qui solo in veste di produttore) e diretto da George C. Wolfe, Ma Rainey’s Black Bottom rispetta, come Fences, la narrazione teatrale, ambientata, a parte sporadiche riprese in esterna – l’arrivo della cantante e della sua amichetta Dussie Mae (Taylour Paige), bella senz’anima, che le trotterella dietro come un barboncino al guinzaglio – tra le quattro mura dello studio. I temi hanno a che fare con razzismo e discriminazione: i race records (dischi destinati alla popolazione nera); lo sfruttamento degli artisti afroamericani, liquidati volta per volta con una misera paghetta e senza diritto alle royalties; la segregazione che non concede privilegi neanche alle celebrità; la condizione delle donne nere, che Davis aveva già esplorato in film come The Help e Il dubbio, l’exploit hollywoodiano accanto a Meryl Streep (il suo idolo) che le fece guadagnare nel 2008 la prima nomination all’Oscar. «A loro non frega un cazzo né di noi né del blues» sbotta Ma Rainey alla fine dell’estenuante seduta di registrazione. «A loro importa solo dei soldi».
Per interpretare un ruolo del genere in pieno Black Lives Matter non sarebbe bastata una brava attrice, c’era bisogno di un’attrice straordinaria, impegnata, informata, colta, arrabbiata, temeraria al punto di entrare, non esattamente in punta di piedi, nel sacro territorio del blues, ma anche di esprimerne una gamma infinita di sentimenti contrastanti: esaltazione e umiliazione, fierezza e fragilità, violenza e tenerezza, splendore e miseria. C’era bisogno di qualcuno che con la sola voce, anche senza cantare, comunicasse contenuti radicati nella schiavitù e nella storia dei neri d’America; c’era bisogno di un’Annalise Keating, l’avvocatessa afroamericana, bisessuale, dispotica, manipolatrice e tormentata che Viola Davis interpreta in Le regole del delitto perfetto (sei stagioni su Netflix). Già in sintonia con August Wilson per essere stata nel cast di Seven Guitars (1996), King Hedley II (Tony Award nel 2001) e Fences, Viola Davis, 55 anni, sposata da diciassette con l’attore e produttore Julius Tennon, era una scelta obbligata.
Nata in South Carolina, in quella che una volta era una piantagione, infanzia poverissima a Rhode Island («dormivo con degli stracci attorcigliati intorno al collo per evitare i morsi dei topi»), quinta di sei figli di padre alcolista e violento che aveva sposato la madre quindicenne quando lui ne aveva venti, liceale sovrappeso bullizzata, talentuosa allieva della Juilliard School, appassionata lettrice di James Baldwin, Nikki Giovanni e Malcolm X, Viola Davis non interpreta Ma Rainey, Viola Davis è Ma Rainey.
Nei giorni successivi alla morte di George Floyd, si è sentita parte attiva del #blacklivesmatter. «Mi sono camuffata e sono scesa in strada. È stato come se avessi protestato per tutta la vita» ha detto a Vanity Fair Usa, che l’estate scorsa le ha dedicato la copertina. «La casa di produzione che ho con mio marito (la JuVee, impegnata nella realizzazione di First Ladies, la serie ShowTime in cui impersona Michelle Obama) è una protesta. Non indossare una parrucca alla notte degli Oscar 2012 è stata una protesta». Non le manda a dire neanche alla giornalista che ha davanti: «In passato avete avuto problemi a mettere donne nere in copertina, ma questo vale per molti altri giornali e campagne pubblicitarie. Ci avete messo addosso il mantello dell’invisibilità». Il magazine ha poi fatto mea culpa dedicando tre consecutive cover story a Janelle Monáe, Viola Davis e Breonna Taylor, la ragazza di Louisville uccisa dalla polizia lo scorso marzo in circostanze simili a quelle in cui poche settimane dopo avrebbe perso la vita George Floyd.
Alla notte degli Emmy 2015, quando fu premiata per Le regole del delitto perfetto, gelò la platea: «Ciò che fa la differenza tra le attrici nere e quelle bianche sono le opportunità. Non puoi vincere un Emmy per ruoli che… non ci sono». Non fa sconti a nessuno, perché «negli Usa il razzismo è ancora molto forte»; sul comodino ha una copia di Post Traumatic Slave Syndrome (Sindrome post traumatica da schiavo), scritto nel 2005 dalla dottoressa Joy DeGruy. Viola Davis ancora chiede quel che Ma Rainey pretendeva all’inizio del secolo scorso e Aretha Franklin invocava cinquant’anni fa: Respect.
Sul Venerdì del 4 dicembre 2020
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