NEW YORK – Quell'8 dicembre del 1980 era una serata tranquilla che si sarebbe chiusa davanti al televisore a vedere un vecchio film, quando le trasmissioni si interrompono per una breaking news, cosa che ai tempi non succedeva mai. Stiamo parlando di dieci anni prima dell'avvento della CNN e di quindici anni prima che partisse la disseminazione news via Internet in tempo reale. I cellulari non esistevano. Allora scrivevo per la Stampa/Stampa Sera. Mi chiedo cosa possa essere successo e dopo 30 secondi appare una semplice scritta che ruotava a nastro sullo schermo bianco: "John Lennon è stato colpito da rivoltellate davanti alla sua casa, al Dakota Building è gravissimo al Roosevelt Hospital". La frase continuava a girare. Abitavo allora al 329 East 65th Street a dieci isolati dal Dakota Building e a venti dall'ospedale sul West Side, sulla 59esima. Con l'amico e collega Guido Barendson, giovanissimo inviato a New York di Repubblica, con me a guardare il film, decidiamo di andare subito all'ospedale per seguire gli sviluppi.
Saltiamo su un taxi e in dieci minuti arriviamo all'ospedale dove c'era il caos. L'ingresso bloccato. Macchine della polizia. Cordoni di poliziotti che impedivano l'ingresso. Un centinaio di persone accorse per mostrare solidarietà e condividere insieme il dolore per l'assurdità di quel che stava capitando. Fra i poliziotti si diceva che l'assassino era un tale Chapman, un giovane, uno squilibrato, preso dalla polizia. Ma in quel momento contava solo una cosa capire quali fossero le condizioni di John Lennon. Ancora non c'erano stati annunci ufficiali. Non sapevo a quell'ora, alle 11.10, quando siamo arrivati all'ospedale, che John Lennon era già morto. Ma sapevo che si trattava già di un evento traumatico per il mondo, per quelle generazioni, inclusa la mia, che erano cresciute con le sue canzoni. Era chiaro che si doveva essere lì a testimoniare per i nostri lettori cosa stava capitando in quelle ora drammatiche. Vedo un ingresso laterale, una strada che scende in una sorta di seminterrato.
Corriamo, scendiamo insieme, entriamo nell'ospedale indisturbati, c'è un ascensore e schiaccio un bottone a caso, mi pare fosse il quarto piano. L'idea era che sarebbe stato più semplice scendere le scale verso il pronto soccorso per capire quali fossero gli sviluppi. L'ascensore si ferma al piano, si aprono le porte e davanti a noi c'è una porta chiusa, con sbarre di ferro simili a quelle delle prigioni. Dietro la porta si apriva uno stanzone spettrale. Nella penombra si vedevano persone che vagavano in piedi, una di loro viene verso di noi con occhi allampanati. Capii che eravamo finiti nel dipartimento psichiatrico. Sembrava una scena del film "Qualcuno Volò Sul Nido Del Cuculo". Scappiamo subito. Schiacciamo il pulsante per andare al terzo piano, usciamo scendiamo per le scale, fino al piano terra, attraversiamo un corridoio e arriviamo vicino al pronto soccorso. Lì a momenti ci arrestano. Tutto bloccato. Trovo un testimone, Rajiv Sanpurji, aveva la moglie in ospedale, mi dice: "Aspettavo notizie di mia moglie quando la porta si è spalancata ed è entrate una lettiga con John Lennon. Il lenzuolo era bagnato di sangue. La moglie, Yoko Ono, dietro di lui, aveva un'aria stravolta, assente. Tutti i dottori si sono precipitati, ma non c'era nulla da fare".
Gli attendenti confermano, dicono anche che John Lennon è morto. Un momento di ghiaccia sangue che non dimenticherò mai. Mi tornavano in mente le sue canzoni che avevo studiato pochi anni prima nella mia camera a Torino in Via Colli 20, in un altro mondo. "Imagine" per prima. E non ditemi che è un ricordo scontato. Perché avevo gli occhi umidi ed è stata davvero la prima canzone che in quel momento mi è venuta in mente. Poi "Yesterday". Le conoscevo tutte a memoria con relativi arpeggi. Riusciamo a uscire, ci dicono che hanno appena trasportato Lennon a un altro ospedale per l'autopsia. Decidiamo di andare al Dakota. La serata è lugubre come il reparto malati di mente del Roosevelt Hospital. Arriviamo al Dakote e tutto è di nuovo bloccato, ma questa volta la polizia è più rilassata. C'è un silenzio solenne. La gente è ordinata, ci sono fiammelle accese. Ci sono alcuni testimoni con cui parlo per l'articolo che dovrò scrivere nella notte. Mi raccontano di Chapman, parlo con il portiere ancora sconvolto. Poi con un agente della polizia, Anthony Palma. Mi racconta tutto, la dinamica dell'omicidio, i colpi di pistola alle spalle, i pochi gradini che Lennon cerca di salire nell'ingresso del suo palazzo, mi dice che Mark David Chapman, l'assassino è originario delle Hawaii, lo hanno già identificato ed è in "custodia… quando sono arrivato stava lì fermo, seduto per terra come un ebete" mi dice.
Torno a casa a scrivere. Chiamo il giornale, sono le 6.15 del mattino in Italia, ancora non hanno la notizia. Il redattore di Stampa Sera è incredulo. Ho un'ora per scrivere perché Stampa Sera esce nel primo pomeriggio e chiude intorno alle 8 del mattino. Usciamo e siamo il primo giornale in Italia con una cronaca in diretta di quel che è successo poche ore prima a New York. Radio e televisioni ne parlano, ma tutti gli altri giornali escono solo il giorno dopo ancora. Erano quelli i tempi dell'era pre-Internet. Il Direttore mi chiama per ringraziare. Ringrazio a mia volta, ma quello resta l'articolo che non avrei mai voluto scrivere. Quarant'anni dopo il ricordo di quella notte resta lucido, forte. Le emozioni anche. Sono passato oggi poche ore fa, dal Dakota, per rendere omaggio e ricordare. C'erano persone ferme, come a meditare, a riflettere su questo quarantesimo anniversario. Con Covid che impazza a New York non possono esserci assembramenti, tutti avevano la mascherina. Ma scopro che la vera celebrazione in programma è per il 9 dicembre, non per l'anniversario della morte di Lennon, ma per quello della sua nascita. Il 9 dicembre avrebbe compito 80 anni. Mi è chiaro che tutti, Yoko Ono inclusa, preferiscono celebrare la vita piuttosto che la morte di Lennon. Ci saranno momenti privati al di là della Settantaduesima Strada, a Central Park, dove la città ha donato su ispirazione di Ono un campo di fragole in memoria di John, già oggi meta di pellegrinaggio: "Strawberry Fieds". E' lì per ricordare l'artista, la sua opera. E gli infiniti campi di fragole dove tutti continueremo a camminare con la sua musica, il suo messaggio e la sua grande umanità.Original Article
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