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Covid, se il caso è grave serve una settimana in più per sviluppare gli anticorpi

SONOi grandi protagonisti del momento, perché ci si chiede – tra l’altro – se quelli indotti dal vaccino saranno efficaci solo contro la malattia o anche contro i contagi, per quanto tempo rimarranno nell’organismo e molto altro. Ma le risposte sugli anticorpi anti Covid-19 sono spesso incerte, non solo perché l’infezione – veicolata da un virus nuovo, ancora in gran parte da studiare – colpisce l’uomo da meno di un anno, ed è quindi impossibile avere chiarezza tutto ciò che va oltre il presente o i pochi mesi trascorsi da quando si è iniziato a monitorare la risposta nei primi infettati. Ma anche perché l’organismo, di fronte a questo virus, si comporta in modo a volte simile a quanto fa con altri (coronavirus e no), e volte diverso, e non resta quindi che continuare a studiare e ad approfondire, sperando di giungere prima o poi ad avere un quadro completo.

Immuni per 4-6 mesi

L’idea generale è che, salvo eccezioni, Sars-CoV 2 susciti una risposta anticorpale che dura in media quattro-sei mesi, affiancata o seguita da quella dei linfociti T, le cosiddette cellule della memoria, che dovrebbero proteggere per tempi più lunghi. Ma le incognite restano numerose. Per capire meglio che cosa succede nei pazienti più gravi, ricoverati, un gruppo di ricercatori cinesi, dell’Ospedale di Wuhan, ha appena pubblicato, su Nature Medicine, una grande casistica relativa a oltre 1.800 malati, i cui anticorpi rendono bene l’idea di quanto sia complicata la situazione, e quante variabili entrino in gioco.

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Giuliano Aluffi


Due tipi di anticorpi

Innanzitutto va ricordato che di anticorpi, cioè di immunoglobuline, ce ne sono di due tipi: le IgM, che intervengono subito, pochi giorni dopo l’infezione, e le IgG, che subentrano alle prime. Ma all’interno di queste due grandi famiglie, le tipologie si moltiplicano. Per restare solo a quelle principali, ci sono Ig contro la proteina Spike (chiamate S), altre contro il punto esatto in cui essa si lega alle cellule dell’ospite (chiamato Receptor Binding Domain, donde IgG di tipo RBD) e altre ancora che hanno come obbiettivo alcune proteine associate al materiale genetico del virus, chiamate nucleoproteine (da cui le Ig di tipo N).
Ognuno di questi tipi segue un andamento specifico, e i ricercatori di Wuhan hanno voluto studiare nel dettaglio che cosa accade alle IgG. Hanno così scoperto che la sintesi di tutti e 3 i tipi avviene con una settimana di ritardo in chi è più grave rispetto a chi è in condizioni meno critiche, ma diventa poi 1,5 volte più ampia, sempre rispetto a quella di chi ha un Covid meno grave.

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Considerando l’età, invece, hanno visto che, quando le condizioni sono serie, quelle di tipo RBD sono molto più alte (4 volte tanto) negli anziani rispetto ai giovani. Queste stesse, insieme alle IgG di tipo S, poi, sono il doppio in chi, al momento della dimissione, ha un tampone negativo rispetto a chi ne ha uno ancora positivo.

Pochi anticorpi e possibili ricadute

In generale, infine, chi ha un basso titolo anticorpale, cioè una concentrazione di anticorpi bassa, ha maggiori probabilità di essere sottoposto a nuovi tamponi anche dopo la guarigione, cioè di incorrere in situazioni che potrebbero essere ricadute, perché ha avuto avuto una reazione debole e di breve durata, e potrebbe non essere adeguatamente protetto se incontra il Sars-CoV 2 una seconda volta.

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Tutto ciò, oltre a rendere l’idea di una sorta di puzzle molto complicato, di cui mancano ancora numerose tessere, ha importanti conseguenze, da diversi punti di vista. Si può infatti ipotizzare di capire per tempo come evolverà un Covid in base alla diversa distribuzione degli popolazioni di anticorpi, perché chi si aggrava ha un certo quadro immunologico, così come di intervenire su singole tipologie di Ig (per esempio rinforzandole con anticorpi forniti dall’esterno, monoclonali) o, ancora, di poter interpretare con maggiore precisione la reazione a un certo tipo di vaccino, visto che ce ne sono di diretti contro la proteina S ma anche di altro tipo, in studio.
Secondo molti esperti ci vorrà ancora parecchio tempo prima di avere una visione chiara delle reazioni dell’organismo sia naturali che indotte dal vaccino e di tutte le possibili varianti dovute per esempio all’età o alle condizioni pregresse, anche se la disponibilità di grandi casistiche e di migliaia di campioni potrebbe consentire, anche in questo caso, di abbreviare i tempi rispetto a quanto avvenuto finora con lo studio delle infezioni virali.
La Guida

Covid, come salvare le mani

di

Anna Lisa Bonfranceschi


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