NANCHINO – Non sappiamo dove il coronavirus sia passato all’uomo. Quasi sicuramente non nel famoso mercato di Wuhan, forse neppure in quella città. È possibile che i ricercatori non arrivino mai a definirlo con precisone. Ma attorno a questa incertezza scientifica, fisiologica quando si cerca l’origine di un nuovo patogeno, la Cina sta costruendo una campagna di propaganda e disinformazione il cui obiettivo è intorbidire ulteriormente le acque. Una narrazione che usa alcuni fatti e ne tralascia altri, che strumentalizza studi e dichiarazioni degli scienziati stranieri. Tutto per arrivare a sostenere un’ipotesi possibile in linea teorica, ma giudicata poco attendibile dalla comunità scientifica, cioè che il virus non sia nato in Cina. Che ci sia arrivato “importato” dall’estero, magari dai Paesi che hanno rilevato i casi più antichi, come per esempio l’Italia. Una narrazione che ovviamente scaricherebbe il Dragone da ogni responsabilità per come ha gestito la prima fase del contagio e anzi lo esalterebbe come la nazione che per prima ha avvertito il mondo.
Fin dall’inizio l’amministrazione Trump ha cercato di trasformare quell’indicazione geografica, “il virus cinese”, in un capo di imputazione. Anche cavalcando teorie complottiste, se necessario. E come sempre il Dragone si è difeso attaccando, con la teoria del “virus importato”. A giugno, quando un focolaio è scoppiato in un mercato di Pechino, i tecnici hanno trovato tracce di Sars-Cov-2 un po’ ovunque, ma l’attenzione si è concentrata su un tagliere dove era stato tagliato del salmone norvegese. Possibile che il virus si conservi nei prodotti surgelati e poi si liberi? È possibile, dicono gli scienziati, ma è poco probabile che arrivi a contagiare qualcuno. Invece per la Cina, che dentro i suoi confini ha azzerato il contagio, questa teoria diventa la narrazione ufficiale, in un rimpallo tra ricercatori poco rigorosi e media di regime. Tutti i piccoli focolai che scoppiano da quel momento nel Paese vengono ricondotti a surgelati di importazione, facendo tamponi a milioni di imballaggi fino a trovare tracce del virus.
Nel frattempo la data di inizio dell’epidemia per la Cina resta sempre la stessa: dicembre. Anche se un documento riservato, rivelato dai media, retrodata un caso a metà novembre. Anche se una ricerca inglese, ricostruendo le mutazioni genetiche, colloca il primo contagio tra ottobre e dicembre, con grande probabilità sul territorio del Dragone. Niente: Pechino resta fissa su dicembre e gli unici paper stranieri che considera sono quelli che rivelano tracce di Sars-Cov-2 precedenti, in primavera nelle fogne di Barcellona o a settembre in Italia, come scrive l’Istituto Tumori di Milano. Quando Alexander Kekulé, uno scienziato tedesco, dice in tv che la maggior parte dei ceppi virali attualmente in circolazione derivano da quello italiano, i media in mandarino eliminano quella parola, “attualmente”, e lo usano a sostegno della causa. Tagliano la parte in cui, pochi secondi dopo, diceva che il ceppo originario era quello cinese.
L’ultimo passo della strategia si è visto due giorni fa, quando il quotidiano nazionalista Global Times ha pubblicato un’inchiesta dal titolo “è possibile che i surgelati importati abbiano scatenato il contagio a Wuhan?” Risposta ufficiale, con citazioni di vari scienziati locali: mancano le prove, ma non può essere escluso. Peccato che la stessa inchiesta ometta di dire che tra i primissimi positivi registrati in città, diversi non avevano legami con il mercato. Ma l’obiettivo della Cina non è arrivare a una conclusone, né accusare esplicitamente Paesi stranieri. Non a caso una ricerca che indicava l’origine del virus nel subcontinente indiano è stata subito ritirata. No, a Pechino interessa usare l’incertezza scientifica per negare l’ipotesi più probabile, cioè che il virus sia nato in Cina, e accreditarne una di cui non ha prove, cioè che sia nato altrove.
“La ricerca dell’origine del virus è una questione scientifica complessa (…) un processo in corso che potrebbe coinvolgere diversi Paesi”, è ormai la posizione ufficiale del regime. Un tentativo di agitare le acque che rende un’indagine già proibitiva, come un ago in un pagliaio, ancora più complessa. L’Organizzazione mondiale della Sanità, incaricata di portarla avanti, ha composto il team di esperti, ma Pechino ha fatto di tutto per rallentarne l’ingresso nel Paese. Dopo estenuanti negoziati, l’Oms ha ottenuto che i tecnici possano andare a Wuhan, ma solo in un secondo tempo, ancora da definire. Le prime ricerche in loco saranno affidate a scienziati cinesi. Una partenza non incoraggiante.
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