"La fiducia è la moneta di scambio che determina il successo nell'industria dei media", sentenziò un paio d'anni fa – in uno degli innumerevoli congressi di giornalismo – la World Association of News Media, una delle tante associazioni di giornalisti. Se la definizione è esatta, il valore corrente della moneta fiducia è piuttosto basso, e per i media (almeno quelli "tradizionali": giornali, tv, siti di informazione) è urgente fare i conti con questa scarsità: per garantirsi sostenibilità ma anche per garantire che la democrazia non perda, con l'informazione, uno dei suoi fondamenti.
Secondo il Reuters Institute's Digital News Report uscito l'estate scorsa, meno di 4 persone su 10 (38%) in 40 Paesi dicono di fidarsi della maggior parte dell'informazione che incrociano. La misura della fiducia è difficile da afferrare: le percentuali salgono se si specificano i media di riferimento, perché con l'aumento della polarizzazione della società si creano anche media "polarizzanti", che catturano le aspettative più estreme e creano "isole" di fiducia – non necessariamente degne – in un oceano di diffidenza.
Per cercare di individuare dove e come si è rotto il rapporto di fiducia tra pubblico e giornalismo, il Reuters Institute dell'Università di Oxford ha appena pubblicato il primo rapporto del suo progetto triennale Trust in News Project, una ricerca condotta in 4 Paesi (Usa, Brasile, India e Regno Unito, in rappresentanza di diverse realtà del globo) sulla base di oltre duecento ricerche e di interviste con oltre 40 professionisti. Ne esce un quadro estremamente fluido e diversi spunti da cui partire: non esiste "un" problema di fiducia, ma diverse correnti di potenziale perdita della credibilità. E il grado di trasparenza che giornali e tv devono e possono adottare varia molto a seconda dei contesti. Non sempre "vogliamo sapere cosa mettono dentro la salsiccia che ci mangiamo", sintetizza brillantemente un giornalista inglese intervistato.
"La fiducia nell'informazione è un rapporto tra chi chiede e chi dà fiducia – spiega Benjamin Toff del Reuter's Institute – Non è questione solo di mantenere standard giornalistici rigorosi in redazione ma di cosa il pubblico pensa che il giornalismo debba essere e di come debba funzionare". Detta così, se è solo questione di "percezione", il gol è imparabile per il giornalismo professionale. Troppe variabili inafferrabili. Troppi attori interessati a inquinare le acque – il ruolo dei politici polarizzanti è in primo piano nella ricerca. Troppi intermediari potenti nella distribuzione delle news, quell'ultimo anello della catena che oggi è nelle mani delle grandi piattaforme tech su cui i media hanno poco o zero controllo (tanto per dire, lo stesso Trust in News Project è finanziato da Facebook).
Non si tratta di un problema nuovo, e infatti negli ultimi anni si sono fatti molti sforzi per trovare ricette che salvassero l'industria dei media nel suo complesso dalla crisi di credibilità: consorzi, "pagelle" reputazionali, bollini, manuali di standard, appelli alla "media literacy" (cioè l'educazione all'informazione dei bambini in età scolare), redazioni aperte al pubblico, festival. E molti risultati sono stati ottenuti, anche perché i modelli di business dei giornali si andavano sempre più orientando verso abbonamenti e membership, che richiedono un rapporto di fiducia stretto e duraturo con il pubblico.
"La fiducia è una relazione", dice Sally Lehrman del Trust Project. "E' più che semplicemente dire: credo a quello che dici. E' condividere gli stessi valori". Il Trust Project, di cui fanno parte anche Repubblica e Stampa, è una mappatura di indicatori "fondamentali del giornalismo basato sull'integrità", condivisi da alcune redazioni digitali – e integrati nei loro sistemi editoriali. L'obiettivo è "trovare un terreno comune tra culture giornalistiche e sistemi mediatici diversi". Ad esempio, marchiare i diversi contenuti per la loro natura (commenti, satira, inchiesta, ecc), tutti tracciabili nel diverso metodo di lavoro; offrire il background e le eventuali affiliazioni dei singoli giornalisti, nonché dare immediato accesso alle politiche di correzione e di revisione dei contenuti.
Lo studio indica che i brand "mainstream" – i più conosciuti – tendono ad ottenere maggiore fiducia. Ben Smith, che ha fondato il canale news di BuzzFeed e ora scrive di industria dei media per il New York Times si dice sorpreso: "La gente continua a fidarsi dei vecchi marchi famosi, onestamente più di quanto mi aspettassi". E forse non è un caso che proprio lui abbia mollato un giovane, per quanto aggressivo, sito di news per il "vecchio" New York Times. La reputazione può anche essere a doppio taglio: un grande giornale può ritrovarsi più facilmente al centro di attacchi e controversie, proprio per il suo ruolo.
Una grande difficoltà viene dalla scarsa conoscenza delle pratiche giornalistiche, in parte dovuta alla scarsa trasparenza di certi procedimenti – ad esempio non sempre è chiara la differenza tra il crescente contributo di "contenuti sponsorizzati", che vanno a riempire il vuoto lasciato dalla pubblicità tradizionale, e i contenuti editoriali puri. In parte alla scarsa "media literacy", di cui parlavamo prima. Il fatto che le news corrano oggi su canali che sfuggono al controllo di che le produce crea inoltre un'amplificazione dei possibili fraintendimenti. "La gente non distingue tra un articolo che scrivo e uno che condivido su Twitter", lamenta una giornalista indiana intervistata.
Un altro filone di potenziale sfiducia è lo scollamento del lavoro giornalistico dai bisogni di comunità storicamente sotto rappresentante (come gli afroamericani, o comunità rurali del Sud globale o anche dell'Occidente), che sempre più ricorrono al citizen journalism e ai social per creare narrazioni che colmino questo vuoto. Una maggiore diversità di genere e razza in redazione e un rafforzamento dei media locali (problema particolarmente sentito negli Usa) possono aiutare a riconnettere comunità e giornalismo.
"La crisi del Covid19 – dice ancora Benjamin Toff del Reuters Institute – ha offerto una grande occasione ai media, soprattutto quelli locali, per dimostrare il proprio valore ai cittadini: l'importanza di un'informazione degna di fiducia e i pericoli della disinformazione non sono mai stati più chiari di adesso. Alcune redazioni lo hanno capito e hanno aumentato i loro sforzi per produrre giornalismo di servizio, servizi esplicativi, fact-checking, concentrandosi su poche questioni basilari di cui le persone hanno oggi disperata necessità per potersi orientare".
Ma non basta più dire: "fidati di me perché sono un giornalista", o perché "lavoro per XY": il vecchio modello "top-down" dei media, che non avevano altro rapporto con il pubblico se non la pagina delle lettere, è entrato in crisi con i social e lo scrutinio continuato che essi offrono. La rinegoziazione delle fiducia può avvenire su un rapporto di mutuo riconoscimento di valore tra giornalista e pubblico. "La fiducia nel XXI secolo si guadagna in un modo diverso, attraverso la trasparenza – dice Alan Rusbridger, storico direttore del britannico Guardian e autore del recente libro "News – And how to use it" – Il problema maggiore è riconoscere una relazione più orizzontale con la gente. Non è più tempo di capiredattori e direttori che dispensano notizie dall'alto". Aumentare la credibilità dei singoli giornalisti, curare il loro "brand", è una strada che molte redazioni stanno percorrendo, anche se è più rischioso e anche ingiusto sottoporre degli essere umani, con tutte le loro sfaccettature e debolezze, a una verifica di standard che di solito – nel marketing – si attribuisce a interi marchi industriali.
Rompere il muro della sfiducia è ancora più difficile quando la narrazione generale si è ormai incrostata di pregiudizi e luoghi comuni: "media di parte", "giornalisti venduti", "manipolatori". Alcune di queste narrazioni sono così generiche e pietrificate che nessuna azione le può scalfire. Si può tentare di spiccare sugli altri marchi, magari denigrandosi a vicenda e aumentando così il clima generale di sfiducia, o si può tentare – come hanno fatto alcune grandi testate in questi anni – di consorziarsi e offrire un fronte di credibilità comune del giornalismo. Perché alla fine, come dice Sewell Chan del Los Angeles Times, "Quando lavori nelle trincee delle notizie, la tua paura più grande non è lo scetticismo. E' la non esistenza dei lettori. La paura dell'irrilevanza".
Non c'è dunque una ricetta definitiva e buona per tutti, conclude il rapporto del Reuters Institute, ma una linea generale esiste: "Ogni tentativo di risolvere il problema della fiducia deve fare i conti con il fatto che, per quanto la fiducia sia importante per il pubblico, può essere anche pericolosa, perché non tutti quelli che gliela chiedono ne sono degni allo stesso medo. La vita sarebbe certo più semplice per i giornalisti e le testate se il pubblico mostrasse più deferenza verso il loro lavoro. Ma la deferenza non è nell'interesse pubblico. Mentre la fiducia, se ce la si guadagna, lo è".Original Article
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