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Una storica inglese alla scoperta delle partigiane

È la straordinaria epopea delle donne piemontesi impegnate nella Resistenza quella che Caroline Moorehead ci racconta in La casa in montagna. Storia di quattro partigiane (Bollati Boringhieri). Fedele alle regole di sobrietà e chiarezza della migliore tradizione biografica anglosassone e armata di un trascinante ritmo narrativo, la scrittrice ci restituisce, a partire dalle scelte di quattro amiche fuori dal comune, una storia corale di migliaia di altre donne che si erano unite alla Resistenza per liberare il loro Paese. Le abbiamo chiesto di illustrarci la genesi del suo libro.
Signora Moorehead, cosa l'ha spinta ad occuparsi della Resistenza italiana?
"Sono sempre stata affascinata dal problema del coraggio e dalle persone capaci di non avere paura anche in condizioni terribilmente pericolose. Ho cominciato la mia indagine con la storia di 230 donne nella Resistenza in Francia inviate a Auschwitz nel 1943 (Un treno per Auschwitz, 2013). Mi sono poi interessata ai villaggi protestanti nelle Cevennes dove avevano trovato rifugio molti ebrei e partigiani francesi (La piccola città dei sopravvissuti, 2016), dopodiché sono passata ai fratelli Rosselli (Una famiglia pericolosa, 2018) e alla Resistenza italiana".
Molti dei suoi libri hanno come protagoniste delle donne. La sua è una scelta femminista?
"Non mi considero una scrittrice femminista ma, come è noto, il ruolo delle donne nella Storia è spesso dimenticato e su di loro è ancora possibile trovare molti documenti interessanti trascurati dagli storici".
Lei denunzia con molta decisione i pregiudizi anti-italiani del governo e dei militari inglesi e la loro determinazione a non prestare credito al movimento della Resistenza.
"Consultando gli archivi inglesi, ho potuto constatare che fra i soldati inglesi, come da parte dei servizi segreti, c'era un atteggiamento diffuso di disprezzo nei confronti degli italiani, soprattutto dopo l'Armistizio dell'8 settembre del '43 e la disastrosa anarchia che ne era seguita. Amo l'Italia, dove torno ogni anno da quando ero bambina, sapevo che si trattava di un preconcetto ingiusto e ho voluto ricordare che vi erano stati molti italiani che avevano dimostrato grandissimo coraggio e che, attraverso la Resistenza, avevano dato un contributo significativo alla liberazione del loro Paese".
Come spiega che anche la storiografia anglosassone abbia confermato questo preconcetto?
"Ho sempre pensato che gli storici anglosassoni abbiano dell'Italia una visione convenzionale e un po' folkloristica: un Paese con un passato artistico straordinario, dove la vita è piacevole, la cucina eccellente, gli abitanti cordiali e inaffidabili. In sostanza, un Paese meno serio degli altri Paesi europei. Di conseguenza da noi la Storia dell'Italia moderna è poco studiata".
Nella generale diffidenza mostrata dagli Alleati nei confronti degli italiani in generale e della Resistenza in particolare, lei mette in luce il diverso atteggiamento degli inglesi e degli americani.
"Gli alleati americani avevano verso l'Italia un atteggiamento molto più generoso; in parte ascrivibile alla loro maggiore conoscenza degli usi e costumi del Paese grazie ai moltissimi italiani emigrati negli Stati Uniti; in parte perché avevano una cultura più aperta alla diversità e all'accoglienza".
Inglesi e americani condividevano però la preoccupazione che il successo della Resistenza potesse favorire il radicamento del comunismo in Italia?
"Gli Alleati temevano, in effetti, che i comunisti finissero per acquistare troppo potere in Italia. Di qui la decisione di non mandare delle armi alla Resistenza comunista, e farle pervenire solo al Partito d'Azione e agli altri gruppi partigiani. E di qui i tentativi di impedire che fosse la Resistenza a liberare Torino prima del loro arrivo".
Perché ha scelto come epicentro del suo libro proprio il Piemonte?
"Perché non solo in Piemonte la Resistenza era molto attiva ma è molto ben documentata. Avrei potuto fare altre scelte, ma volevo una regione che mi desse un quadro il più ampio possibile: cioè la Resistenza in città come in montagna, con la partecipazione di cattolici, protestanti ed ebrei e con, in aggiunta, una forte classe operaia".
Lei rivendica un ruolo centrale delle donne nella Resistenza piemontese. Quando scendono in campo e perché?
"Come dappertutto in Italia, le donne entrano in guerra nel settembre del '43, al momento dell'occupazione tedesca, per sottrarre padri, mariti e figli alla deportazione, all'arruolamento forzato, agli arresti".
Veniamo alle sue quattro protagoniste: Ada Gobetti, Bianca Guidetti Serra, Frida Malan, Silvia Pons. Perché proprio loro?
"Perché volevo incentrare il racconto su quattro donne animate dagli stessi ideali di libertà e giustizia ma un po' diverse l'una dall'altra. Ada è la più vecchia, è vedova di Piero Gobetti, e ha un figlio di 17 anni; Bianca studia legge ed è legata alla comunità ebraica; Frida viene da una valle valdese; Silvia sta per laurearsi in medicina e ha appena messo al mondo un bambino senza essere sposata. E tutte hanno lasciato un'ampia testimonianza (lettere, diari, documenti) della loro militanza partigiana e dei discendenti con cui mi è stato possibile parlare".
Quale è stato il contributo specifico di ciascuna?
"Ada è diventata quasi il capo delle staffette; Silvia ha lavorato con i partigiani feriti; Bianca con la comunità ebraica, Frida con i valdesi, e tutte si sono trovate spesso in situazioni di grande pericolo".
Nel suo libro spicca anche la figura di Suor Giuseppina, forse la più straordinaria di tutte le donne da lei evocate.
"Suor Giuseppina è uno dei miei personaggi preferiti. Capo delle sezione femminile nella prigione delle Nuove a Torino – dove venivano rinchiusi e torturati resistenti, ebrei, sospetti di entrambi i sessi – non solo ha migliorato la vita di centinaia di prigionieri, ma ha salvato molti bambini ebrei".
Come riuscì a imporsi a nazisti e fascisti e a risparmiare tante vite?
"Con l'autorità che le veniva dalla sua forza morale e con una volontà di ferro".
Chi erano le staffette e perché hanno avuto un ruolo così importante nella guerra partigiana?
"Erano donne formidabili di ogni tipo e età: ragazzine, maestre, contadine, negozianti, dottoresse, le quali avevano in comune la rivolta contro fascisti e nazisti. Anche se il loro contributo alla Resistenza è molto meno riconosciuto di quello degli uomini, le staffette hanno svolto un lavoro favoloso, nascondendo i ricercati, portando ordini, lettere, armi, letteratura clandestina, in bicicletta o a piedi, camminando per ore in montagna".
Al momento della Liberazione, le donne sono però escluse dalle sfilate partigiane.
"In effetti, al momento della liberazione, Ada, Bianca, Frida e Silvia e molte delle loro staffette avevano sperato che il loro contributo alla vittoria avrebbe assicurato loro nella famiglia, nel lavoro, nella politica, gli stessi diritti dei loro compagni. Perché questo si avverasse dovevano aspettare ancora molti anni".
Sul Venerdì del 4 dicembre 2020Original Article

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