AGI - È in piedi, il viso sbuca da una scatola di cartone che lo avvolge quasi tutto. “Posso misurarti la febbre?”. Offre la fronte, divertito e docile di fronte alla 'pistola' azzurra dell'infermiera Clelia. La luce di Milano – le sue vetrine, i lumi intermittenti del Natale – splende solo per loro in questa notte in cui per chi ha una casa è vietato uscire di casa. Nelle strade attorno alle guglie del Duomo ghiacciate dal gelo, un centinaio di persone povere attende Mouhib e la sua squadra di volontari di Fondazione Arca.
"Ridateci le docce, è più importante che mangiare"
Il Covid ha scavato ancora di più nella miseria, togliendo le mance di chi si metteva le mani in tasca passandogli accanto; ha strappato pezzi di dignità, come l'opportunità di lavarsi perché le docce pubbliche sono chiuse da marzo per evitare contagi. “Quando le riaprono?”, chiede tre volte un signore.
“Perché per me fare la doccia è più importante che mangiare”. “Avete lo shampoo?”, domanda una donna di 60 anni, origini messicane, una bella collana e una vita che fu “in una casa grande e piena di gatti”. Le danno dei piccoli flaconi verdi. “Dove mi lavo i capelli? Alle fontanelle della città. Prendo l'acqua e la tengo lì un po' per farla riscaldare. Funziona o, forse, mi sono solo abituata”. “Da quando c'è il Covid fanno tutti così – spiegano i volontari – si lavano alle fontane”.
Gli abitanti notturni dei portici di San Babila, stesi sui pavimenti lisci e chiari della galleria, si sono abituati anche all'idea del virus. “Anzi – riflette Clelia distribuendo gel e mascherine – sono più preparati degli ‘altri'. Sanno tutto dei sintomi, non oppongono mai resistenza alla misurazione della febbre, al tampone e al saturimetro. Hanno paura”.
Chi sta nelle tende mette fuori solo la testa per farsi controllare la temperatura. Lo fa con un gesto di dolce abbandono che somiglia a quello di chi porge la fronte a una persona cara per farle capire quanto è calda. E si affretta a mettere la mascherina, se non ce l'ha, quando si accostano i volontari. I casi riscontrati di positività sono pochi. “La strada fa venire gli anticorpi, per noi il coronavirus cosa vuoi che sia”, scherza uno.
In queste vite ancora più scarnificate, la pandemia sta però regalando anche qualcosa di nuovo e prezioso a chi non ha un tetto. Quando ci si è resi conto che distribuire panini poteva aumentare il rischio contagio, Fondazione Arca ha messo in campo da un paio di settimane una cucina 'mobile' che distribuisce pasti caldi.
L'appuntamento è alle 21, la voce gira e ormai in tanti lo sanno. All'arrivo del furgone le mani tese sono già decine. Pure quelle di qualche rider che in spalla ha lo zaino grande per il cibo degli altri.
C'è anche Toni, che ha 48 anni e si trova qui, dice, “per colpa del Covid”: “Lavoravo in nero, facevo il venditore di t-shirt ai concerti. I primi due mesi me la sono cavata a pagare l'affitto, pensavo finisse presto. Poi non ce l'ho più fatta. Adesso dormo o da un amico o in ospedale. Sì, nascosto dentro a un ospedale, in un posto segreto. Quando si sentono parlare i politici in tv sembra che nessuno in Italia lavori in nero e invece lo sanno benissimo che ci stanno ammazzando senza aiutarci”.
L'occasione è buona per chiedere ai volontari magliette, intimo, sacchi a pelo, quasi sempre con molto pudore ed educazione. Alcune persone lamentano il freddo insistente. C'è la possibilità di andare al ‘Piccolo rifugio', una struttura collegata alla Fondazione.
Lì viene spedito Pacifico, un uomo di 70 anni che ha poco memoria ma la lucidità di dire sì con un sorriso all'offerta di un letto. Una volontaria riferisce che “è stato dimesso dall'ospedale ancora col catetere”. Viene chiamato un taxi. Il conducente chiede se “è tutto a posto”, vuole capire se chi si mette in auto sia un tipo 'raccomandabile'.
Sempre ‘grazie' al Covid si è deciso di tenere nei gruppi di volontari in modo permanente due infermiere, che in primavera erano state coinvolte solo per l'emergenza. “Abbiamo capito che è un servizio molto utile. Non diamo medicine, ma consigliamo i posti dove farsi visitare gratuitamente e, soprattutto, cerchiamo di creare una relazione di fiducia e consuetudine che li porti a prendersi cura di sé”.
Sotto i portici di una chiesa, un signore anziano con accento campano si rivolge in modo scanzonato a Francesca, la giovane infermiera che accompagna Clelia e indossa la tuta bianca col cappuccio per proteggersi dall'infezione. “Andiamo sulla luna stasera?”. Si risponde da solo: “Sarebbe meglio, ma non perché non c'è il virus, ma perché magari lì non c'è la fame”.
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