DUBAI. La chiamano Dubai Fever, la febbre di Dubai, quel fremito di energia collettiva che sta coinvolgendo le migliori imprese israeliane da quando l'Accordo di Abramo ha aperto i legami commerciali, turistici, tecnologici e diplomatici tra due antichi nemici, gli Emirati Arabi Uniti e Israele. Non essendoci mai stata una guerra tra i due Paesi, l'affinità è lievitata anche grazie a un nemico comune: l'Iran. Sì, sembra proprio la fine di una lunga inimicizia, osservando le frotte di imprenditori, esperti, uomini d'affari, tecnici e inventori che atterrano da Israele, una delegazione dopo l'altra, ad affollare gli hotel di lusso e le scintillanti shopping mall della New York del Golfo.
Contrariamente a Giordania ed Egitto, due Paesi confinanti con cui Tel Aviv ha trattati di pace da anni, gli israeliani qui si sentono liberi di parlare ebraico in pubblico e vengono accolti con dichiarazioni di fratellanza sancite da scambi di tecnologie e di affari che, a dirla tutta, esistevano già di nascosto, ma che ora, alla luce del caldo sole del deserto, s'impennano con un'accelerata che può cambiare i connotati alla regione. Questo è un angolo di Medioriente che fa gola a tanti, considerando che, secondo l'indice dei Centri finanziari globali, Dubai è al 17° posto al mondo come qualità dei servizi finanziari e Abu Dhabi al 33°. Inoltre, non ci sono tasse sul reddito personale o d'impresa, vi si trovano 37 zone economiche speciali e in tre ore di volo sei a Tel Aviv.
"È un po' come innamorarsi" si è lasciato scappare il presentatore emiratino Youssef Abdulbari, durante la trasmissione tv Un messaggero per la pace, in cui l'ospite d'onore era Erel Margalit, capo della prima delegazione di imprenditori israeliani. Il quale, prosaicamente, ha ribattuto: "Dopo Londra, Parigi e New York, questa è la regione che noi imprenditori israeliani vogliamo raggiungere più di ogni altra". Anche perché è la porta d'accesso a mercati africani e asiatici con miliardi di abitanti. Non c'è da sorprendersi, in questi giorni, nello scoprire che per la prima volta la frutta israeliana nel mercato ortofrutticolo di Ras Al Khor a Dubai sfoggia un orgoglioso cartello di provenienza.
Uno degli uomini-simbolo di quest'apertura è Dia Saba, centrocampista arabo-israeliano con un contratto triennale per l'Al-Nasr Sc di Dubai. Ma, oltre al calcio, i progetti allineati coprono un raggio d'interessi importanti. Ad esempio, Taly Nechushtan, Ceo della InnovoPro che si occupa di tecnologia agro-alimentare, ha scoperto che la sua invenzione per estrarre proteine vegetali dai ceci riscuote forte interesse qui. Dopotutto, l'hummus è una pietanza che Israele condivide con il mondo arabo.
La pandemia ha evidenziato una vulnerabilità degli Emirati: devono importare il 90 per cento del cibo. "Gli Stati del Golfo apprezzano molto come in Israele siamo riusciti a produrre verdura nel deserto" dice Edouard Cukierman, del Catalyst Fund. "Per loro questa tecnologia è essenziale e stanno cercando società che possano implementarle da subito".
Anche la Agrint israeliana, che ha affinato un sensore per "ascoltare" la penetrazione del punteruolo, insetto infestante che distrugge le palme dall'interno, ha trovato subito soci emiratini, visto che qui crescono 40 milioni di palme da dattero, un terzo del totale mondiale. E dove ci sono palme ci sono spesso cammelli, un'industria multimilionaria negli Eau, che richiede un milione di tonnellate di foraggio ultra-premium all'anno. Anche qui interviene l'esperienza israeliana nel riuscire a estrarre verdura e vegetazione nei climi semiaridi.
Intanto, il gruppo Kleindienst si prepara alla grande richiesta da parte di investitori israeliani nell'immobiliare locale. Delphine Cazals, direttrice marketing, spiega che questo mese stanno organizzando un grande evento con 400 businessmen israeliani: "C'è molto interesse da parte degli israeliani per le nostre proprietà sul lungomare. Mentre a Tel Aviv una casa fronte mare costa circa 3 milioni di dollari, con tasse sui redditi immobiliari che arrivano al 30 per cento, da noi il costo è circa 460 mila dollari, tre quarti in meno che in Israele, e zero tasse".
Delegazioni e singoli imprenditori vengono accolti in albergo da lettere con scritto "shalom aleichem" cioè "la pace sia con te" in ebraico, quasi identico al "salaam alikum" arabo. Ed è tutto un abbracciarsi e farsi selfie che fino a pochi mesi fa sarebbero sembrati impossibili. Se non altamente rischiosi. "Se mettiamo da parte le ideologie religiose e settant'anni di conflitti, guerre vere e mediatiche, in fin dei conti siamo tutti esseri umani. Abbiamo lo stesso cibo, lo stesso Dna e lo stesso aspetto. Gli israeliani sono nostri cugini" ha dichiarato Mohamed Mandeel, direttore operazioni della Royal Strategic.
Società come la Virtuzone di Dubai e la Apex Holdings di Abu Dhabi, che assistono gli israeliani nell'accesso al mercato locale, stanno lavorando a pieno ritmo in collaborazione con la nuova camera di commercio Eau-Israele. Comunicati stampa, belle foto, dichiarazioni amichevoli. Ma nei fatti? Una società di Dubai ha presentato un'offerta per acquistare una linea aerea israeliana; un'altra ha firmato un accordo preliminare per trasportare petrolio usando un oleodotto israeliano; e c'è serio interesse da parte di una società emiratina all'appalto per acquistare il porto privato di Haifa, in Israele.
Le Borse Diamanti hanno aperto uffici nei reciproci Paesi e ci sono accordi per approntare una squadra di robot-taxi auto-pilotati per la città di Dubai entro il 2022, oltre ad accordi per progetti di ricerca e sviluppo legati alla pandemia, per il turismo medico, sull'intelligenza artificiale e persino per il cinema: la Film Commission di Abu Dhabi e il Fondo per il cinema israeliano hanno varato programmi di training e sviluppo per filmmaker emiratini e israeliani. A sancire tutto ciò, la linea aerea Etihad ha lanciato un sito in versione ebraica, in vista dell'apertura dei voli diretti tra Tel Aviv e Dubai. E, infine, addirittura il vino prodotto nei Territori (occupati) del Golan a breve sarà disponibile anche ai musulmani di Dubai.
Certo, questa notizia non fa piacere a una parte della comunità palestinese. Mentre si firmava l'accordo a Washington, da Gaza partivano missili verso Israele. L'Organizzazione per la liberazione della Palestina ha dichiarato che è stato "un giorno nero nella storia del popolo palestinese" perché la pace richiede la fine dell'occupazione israeliana. Ma la comunità è divisa. Ad esempio, un gruppo di cineasti palestinesi ha subito chiesto di boicottare l'accordo sul cinema. Ma per molti dei quasi due milioni di arabi israeliani quest'accordo vuol dire trovare lavori ben pagati e investitori emiratini. E prestiti. Molti arabi israeliani si lamentano che le banche in Israele sono restie a concedere loro credito perché li considerano categoria a rischio, applicando tassi d'interesse più alti che agli ebrei israeliani. La speranza è di riuscire a ottenere tassi agevolati negli Emirati, e attirare quindi partnership con altre società israeliane. Potrebbe essere una nuova chiave per lo sviluppo palestinese.
Su questa possibilità, uno dei più promettenti giovani imprenditori arabo-israeliani, il palestinese Sari Jaber, conduttore anche di un programma tv in arabo di business e finanza, ha le idee chiare: "Prima dell'accordo la mia comunità faticava a fare affari nel mondo arabo. Adesso noi palestinesi siamo il collegamento e il cuore dei due Paesi. È ora di fare grandi cose". Ma su questo tema, il dibattito nella comunità palestinese resta aperto e piuttosto acceso. Intanto, il ponte aereo tra Tel Aviv e Dubai cementa le basi di un mondo e di una nuova realtà economica totalmente impensabili fino a poche settimane fa.
Sul Venerdì del 4 dicembre 2020Original Article
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