Ci vorrebbe un test fai da te per evitare le file ai drive-in. Accurato in modo che non commetta errori. Rapido, visto che oggi restiamo sospesi per giorni in attesa del risultato. Ed economico: in Italia oggi se ne fa più di un milione a settimana. Mettere tutti questi requisiti insieme resta un miraggio. Ma attraverso sentieri diversi, ci si sta avvicinando. Test salivari e cotton fioc per l’autoprelievo nel naso sono i percorsi seguiti per espugnare il fortino delle diagnosi troppo lente. Gli Stati Uniti hanno appena autorizzato in regime d’emergenza un kit che può essere usato da soli, messo a punto da una ditta californiana. Ci si passa un cotton fioc nel naso, poi si sfrutta quello che è un vero e proprio laboratorio di biologia racchiuso in una scatoletta. Il genoma del virus, sul proprio tavolo di casa, viene fatto replicare per cicli ripetuti, prima di poter raggiungere quantità sufficienti ed essere rilevato, in circa mezz’ora. E’ il metodo seguito dai tamponi molecolari, e ne mantiene i limiti di complessità. Il nuovo test costa almeno 50 dollari, è prodotto in numeri bassi e negli Usa ha bisogno della prescrizione.
Più semplice è quello che ormai viene chiamato “il test di Zaia”. Come quello americano, parte dal cotton fioc nel naso. Ma anziché il genoma, rileva alcune proteine che compongono la parte esterna del coronavirus: gli antigeni. E se il prelievo fai da te vicino alle narici è meno preciso del tampone fatto da un professionista (che penetra nel naso anche 10 centimetri, arrivando quasi alle orbite), anche la rilevazione degli antigeni è considerata meno affidabile di quella del genoma del virus. Risultato: il “test di Zaia”, svolto dal governatore del Veneto in diretta tv, con la dichiarazione in diretta – “sono negativo” – non è ancora validato. Non può essere usato per ottenere un risultato ufficiale. “I kit non sono commercializzabili perché devono essere autorizzati dal Ministero della sanità e testati sul campo” ha ammesso lo stesso governatore.
di
Michele Bocci
Strumenti simili sono usati in via sperimentale all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze (il test si chiama “Uffa”), proprio per evitare il tampone ai bambini, e all’università di Milano, dove con lo stesso obiettivo un gruppo di ricercatrici ha messo a punto il cosiddetto “test delle mamme”, che parte da un cilindretto di cotone tenuto in bocca qualche secondo.
La loro affidabilità resta sconosciuta. Ma il “test delle mamme” ha un progenitore eccellente: l’esame salivare usato a tappeto dall’università americana di Yale, imitato poi da altri atenei non solo negli Usa. In Italia il metodo viene adottato all’università di Padova. Della sperimentazione si occupa il professore di biochimica clinica dell’ateneo, Mario Plebani. “A ottobre, con la ripresa della didattica in presenza, abbiamo iniziato con un test ogni venti giorni a tutto il personale, circa 8 mila persone e abbiamo analizzato circa 12mila campioni. Tutti i casi positivi sono stati confermati con il tampone e siamo riusciti a tracciare tutti i contatti per contenere la diffusione dell'infezione. Con l’aumento dei contagi siamo arrivati a una volta ogni dieci giorni. Il kit viene recapitato a casa. Il cilindro di cotone va tenuto in bocca, poi messo in una provetta con un codice a barre e inserito in una busta a chiusura ermetica. In ateneo ci sono otto punti di raccolta. Da lì una ditta specializzata porta i campioni nel nostro laboratorio, dove avviene l’analisi. Finora tutti i casi positivi sono stati confermati con il tampone molecolare, che resta l’esame di riferimento”.
a cura di
Piera Matteucci e Giovanni Gagliardi
In laboratorio, i campioni di saliva sono sottoposti all’analisi che rileva il genoma del virus. Francia e Svizzera si affidano molto sui test salivari. In Italia la validazione da parte degli organismi ufficiali non è ancora avvenuta, ma già Friuli Venezia e Giulia e Lazio preannunciano una loro futura introduzione. “In sé, la saliva come matrice è leggermente meno affidabile rispetto al tampone tradizionale. Ha caratteristiche diverse da persona a persona, ma resta un metodo fattibile” per Maurizio Sanguinetti, professore di microbiologia alla Cattolica di Roma e direttore del laboratorio del Policlinico Gemelli. Il campione va raccolto preferibilmente al mattino e a digiuno. Come per gli altri test molecolari, neanche il numero dei salivari è estendibile più di tanto.
Un buon compromesso potrebbe essere la ricerca degli antigeni, le proteine del virus, nella saliva. Facilità di prelievo e facilità di analisi potrebbero darci il test ideale. “Ma la saliva è piena di enzimi che spezzettano le proteine” spiega Vittorio Sambri, microbiologo dell’università di Bologna e direttore del laboratorio della Ausl Romagna. “Vedremmo resti del virus troppo degradati per avere risultati attendibili. Ma ci si sta lavorando e la precisione potrebbe migliorare”. Il tempo, infatti, è alleato della precisione dei test. “All’inizio, in primavera, arrivava di tutto” ricorda Sambri. “Anche kit provenienti dalla Cina che come unica certificazione avevano una stella rossa stampigliata sulla scatola”.
Spesso i produttori indicano performance di sensibilità e specificità molto gonfiate. “Le aziende non hanno il tempo di effettuare un gran numero di test di prova” spiega Sanguinetti. “E tendono a scegliere pazienti con tanto virus e pochi dubbi sulla diagnosi. In questo modo riceviamo kit che sulla carta sono precisi al 99 e passa percento. Ma poi nel mondo reale, su numeri grandi e con pazienti dalle caratteristiche più sfumate, non sempre si rivelano all’altezza”.
Adottati in tutta fretta d’estate per intercettare i viaggiatori infetti, i test rapidi stanno mostrando in autunno pregi, ma anche limiti: soprattutto in termini di falsi positivi. Sono esami che usano il tampone fatto in profondità, ma del coronavirus cercano gli antigeni, con risultato in un quarto d’ora. In Italia ne sono stati acquistati una quindicina di milioni. In Germania, uno studio coordinato dal virologo “nazionale” Christian Drosten, ne ha messi a confronto sette, con cinque marche che raggiungevano una specificità tra il 98 e il 100% e due ferme invece al 95% e all’84%.
Eppure, per effettuare uno screening, questi risultati sarebbero sufficienti. “Un conto è confermare la diagnosi di una persona con sintomi, che va isolata e curata” spiega Sambri. “Un altro conto è verificare quanti positivi ci sono in una certa comunità. Nel primo caso serve l’esame migliore, cioè il tampone molecolare. Nel secondo va benissimo il rapido antigenico”. Che infatti è stato scelto per il test di massa a Bolzano. “E’ stato calcolato – prosegue il microbiologo di Bologna – che per gli screening si hanno risultati migliori usando un test meno preciso ma con frequenza maggiore, che un test più preciso ma con frequenza minore. E soprattutto, con tempi lunghi per il risultato”.
I tamponi molecolari poi – con 250 mila test al giorno in Italia, dieci volte tanto rispetto a marzo – sembrano aver raggiunto il loro limite. Le file ai drive in ne sono la dimostrazione lampante. “Anche in laboratorio, difficilmente riusciremmo ad andare oltre” spiega Sanguinetti. Perfino le aziende sono a corto di fiato: “Soddisfare tutta la domanda sarebbe impossibile” ha ammesso di recente in un’intervista Severin Schwan, ceo della Roche, uno dei principali produttori al mondo. “Punteremo piuttosto a un aumento della produzione di test rapidi”.Original Article
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