LONDRA – “È l’ultimo lancio di dadi”, dicono a Londra. Ossia l’armageddon della Brexit, la settimana del giudizio. Perché sì, stavolta dovremmo esserci. A meno di clamorose sorprese, l’ennesima settimana decisiva della Brexit, quella appena iniziata, stavolta lo sarà per davvero. Ma è una complicatissima gara di scacchi, in una trincea politica che oramai dura da quattro anni, sinora senza soluzione. In ogni caso, ora non c’è più tempo. Regno Unito ed Unione Europea adesso devono decidere: divorziare con un accordo, commerciale e non solo. Oppure lasciarsi male, malissimo, con un No Deal, cioè l’uscita irreversibile di Londra dall’Ue senza un accordo, con tutte le complicazioni e i contraccolpi economici, finanziari e sociali che un azzardo simile potrà provocare, principalmente per il Regno Unito ma anche, come ripercussioni, per l’Europa. Gli addetti ai lavori oramai danno i due scenari entrambi a un 50% di possibilità.
Sfatiamo subito il mito di Johnson “che starebbe di tutto per creare lo scontro e uscire con un No Deal”. È falso, perché il premier britannico e brexiter ha assolutamente bisogno di un accordo, anche se minaccia di uscire senza, a maggior ragione con la pandemia in corso e l’addio del suo rasputin ultra-euroscettico Dominic Cummings.
Ciò, purtroppo per lui, lo sa anche l’Europa ed è per questo che l’Ue sta cercando di strappare quante più concessioni possibili a uno stato membro che non solo per la prima volta nella storia dell’Unione ha deciso di abbandonarla, ma che, per la vicinanza e le interconnessioni economiche, potrebbe rappresentare una “minaccia” consistente e ostile fuori dall’Ue a breve e lungo termine. Allo stesso tempo, Johnson e il Regno Unito cercano di ottenere un accordo ovviamente il più favorevole possibile dall’Ue. Ma la crisi del Covid ha aggravato anche gli atteggiamenti dei due blocchi: in uno scenario economicamente così disastrato, sia Uk e Ue non possono concedere praticamente nulla. Di qui uno stallo che sinora è stato insormontabile.
Ci sono principalmente tre scogli, sinora insuperabili perché ognuno non vuole cedere. E cioè: la pesca. Che sì, rappresenta lo 0,1% del Pil britannico, ma, come abbiamo raccontato nel weekend con un reportage dal porto più grande del Regno Unito e d’Europa, è un argomento assolutamente cruciale per Johnson. Non solo: siccome il 60% del pesce britannico passa per la Scozia, il premier non può perdere su questo punto patriottico perché altrimenti sarebbe una delusione enorme per i pescatori locali che favorirebbe ancora di più l’indipendenza scozzese, il cui sostegno è a livelli massimi, secondo i sondaggi.
Ma all’Europa cosa importa della pesca? Importa moltissimo, soprattutto alla Francia e altri paesi come Belgio, Olanda e Spagna che hanno centinaia di aziende ittiche nel Nord dei loro Paesi che in questi ultimi decenni hanno operato in acque britanniche. Ora, causa Brexit, un intero settore rischia di essere spazzato via. Perché se prima, con Londra in Ue e nel mercato unico europeo, tutti pescavano nelle acque britanniche (e viceversa) in base a un sistema di ripartizione di quote del pescato, ora il Regno Unito, da Paese “indipendente e sovrano”, vuole riacquistare il controllo quasi totale su di esse e, da nazione sovrana e fuori dall’Ue, decidere autonomamente e di anno in anno quante barche straniere posso possono entrare e pescare. Ma per Macron e gli altri è inaccettabile. Trovare un accordo non sarà facile viste le premesse, ma un compromesso è possibile se una delle due parti accettasse di accantonare il patriottismo e dunque una sconfitta (più simbolica che economica) per magari strappare altre concessioni altrove.
dal nostro inviato
Antonello Guerrera
In questo campo, che i tecnici chiamano “Level Playing Field”, si ripropone lo stesso confronto ideologico della pesca. Londra dice: perché io, per avere un accordo commerciale con voi post Brexit a zero dazi e tariffe, devo continuare a rispettare norme quasi da Stato membro Ue, anche se non lo sono più? Risposta dell’Europa: perché voi britannici siete a pochi chilometri dalle nostre coste, la vostra economia è serialmente intersecata con la nostra dopo 47 anni di appartenenza in Ue, e quindi non possiamo rischiare da parte vostra una concorrenza sleale, tipo su standard lavorativi e ambientali, aiuti di Stato, servizi, eccetera. Proprio per questo, un accordo commerciale come quello tra Ue e Canada, agognato da Johnson, è improponibile per l’Europa nel caso del Regno Unito. Come se ne esce? Impossibile, se qualcuno non cede. Johnson ha fatto qualche concessione nelle ultime settimane, ma per l’Europa non basta. Anche perché il premier britannico solo qualche settimana fa si è rimangiato la parola data sul controllo delle merci dalla Gran Bretagna verso l’Irlanda del Nord nonostante lui stesso avesse firmato quell’accordo di divorzio con l’Ue lo scorso autunno. Una tattica negoziale – estrema – di Boris per costringere l’Europa a cedere. Ma allo stesso tempo ha eroso quella fiducia già limitata che l’Ue aveva per Boris.
Anche per questo episodio increscioso secondo gli europei, l’Ue si è impuntata sull’utilizzo delle sue corti, inclusa quella dei Diritti dell’uomo, per risolvere eventuali dispute post Brexit. Siccome l'Ue non si fida dei britannici, del governo Johnson fortemente euroscettico e siccome ci sono milioni di cittadini e aziende europee Oltremanica, Bruxelles insiste per preservare il ruolo e l'autorità dei tribunali europei in alcune dispute tra i due Paesi. Ovviamente per Londra tutto questo è inaccettabile: la propaganda dei brexiter negli anni è stata proprio quella di riappropriarsi della capacità e autonomia legislativa senza avere più nulla a che fare con la giustizia europea. È un altro scoglio ideologico, ma di fondamentale importanza.
Johnson ora si trova davvero all’angolo. La sua è una situazione davvero complicata e creata da lui stesso con la sua propaganda antieuropeista negli anni, e deciderà parte della sua carriera politica, se non tutta. Da una parte, Johnson vorrebbe una Brexit più favorevole possibile al Regno Unito, ma, per natura, potrebbe accettare anche un compromesso più dannoso del previsto pur di sventolare l’accordo con l’Ue alle folle festanti ed uscirne moralmente vincitore. Tuttavia, anche per la sua retorica euroscettica, Johnson oramai ha fomentato una valanga di suoi deputati brexiter che non accetteranno mai una Brexit dimezzata. In più, dall’altra parte dell’oceano non c’è più un eurofobo Trump, ma un “irlandese” come Joe Biden che l’ha già avvertito: non fare scherzi che possano mettere in pericolo la pace in Irlanda del Nord. In tutto questo Johnson ha appena perso il suo consigliere supremo Cummings e come detto non può deludere gli scozzesi altrimenti la secessione sarà sempre più vicina.
La speranza, del premier britannico, è che Angela Merkel presidente di turno Ue, irrompa nella scena e trovi una sintesi, un po’ come fece il premier irlandese Varadkar l’anno scorso per l’accordo di divorzio, e all’ultimo convinca gli altri membri Ue a cedere. Ma difficilmente la cancelliera tedesca spaccherà il fronte unito europeo per fare un favore a Johnson, nonostante la Germania sia uno dei Paesi Ue più esposti alle scie venefiche di un potenziale No Deal del Regno Unito.
Oggi Johnson dovrebbe ripresentare proprio quelle parti controverse della legge Internal Market Bill (che violano l’accordo di divorzio Brexit dello scorso ottobre sull’Irlanda del Nord e che i Lord gli hanno bocciato perché infrangono la legge internazionale: una tattica negoziale estrema, quasi kamikaze, con la quale Boris credeva di costringere gli europei a cedere ma che, in fin dei conti, ha solo peggiorato la situazione e declassato ancor più la fiducia dell’Ue nei suoi confronti.
Boris è davvero all’angolo. Ma nella sua vita è spesso riuscito a uscirne, anche grazie all’istinto. Ci riuscirà anche stavolta? Intanto il Sunday Times racconta di come lui vada in giro a Downing Street citando “Waltzing Matilda”, ossia la canzone dell’australiano Slim Dusty, per simboleggiare la possibilità concreta dell’addio all’Ue con il No Deal (che lui chiama “deal australiano”). Peccato che quella canzone sia su un uomo che prende il suo fagotto e se ne va da solo…
In realtà Dublino anche stavolta vorrebbe un compromesso tra i due blocchi, perché, come ha detto a Repubblica qualche settimana fa il premier irlandese Martin, l’Irlanda sarebbe il Paese che più pagherebbe le conseguenze di una Brexit senza accordo. Per la fragile pace del 1998 che potrebbe essere messa a repentaglio da un possibile ritorno dei confini, ma anche perché l’economia, la logistica, i trasporti, i beni alimentari sono decisamente connessi all’Irlanda del Nord ma soprattutto alla stessa Gran Bretagna, perché oltre la metà del cibo proviene proprio da lì. Insomma, l’Irlanda non si può sacrificare, tutti lo sanno. Proprio per questo, ma non solo per questo, un accordo è fondamentale per tutti.
Una Brexit “No Deal” sarebbe deleteria per entrambe le parti e masochista in una situazione così complicata come quella della pandemia da Covid. Al di là degli scontri, delle ideologie, degli interessi di parte, delle vendette in questo infinito thriller della Brexit, una rottura senza accordo non conviene davvero a nessuno. È per questo che una uscita regolata di Londra dall’Ue rimane, nonostante le tensioni e i battibecchi continui, l’epilogo certamente più probabile. Anche se nella Brexit, e lo sappiamo dopo quattro anni, tutto può succedere.Original Article
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