Tony Cairoli è una leggenda planetaria del motocross. Pur avendo dedicato gli ultimi 31 anni a una disciplina massacrante, di farsi da parte ancora non ne vuole sapere. Nell’ultima edizione del mondiale è arrivato terzo, al termine di una stagione segnata per tutti dalle complicazioni della pandemia, e per lui in particolare da una serie di grane e infortuni. Finito di correre in moto, ha partecipato a diversi rally in auto ed è volato in Belgio per una piccola operazione al ginocchio. Intanto ha trovato il tempo per registrare, a bordo di un kart cross, la prima puntata di “Drive Me Crazy”, serie tv condotta dalla giornalista Irene Saderini e prodotta da Red Bull Media House per Discovery Italia. La si può vedere in streaming su dplay.com
Cosa ha provato ad essere fra i protagonisti di una serie TV?
“Sono un tipo schivo, ma mi sono divertito. Già mi ero prestato qualche anno fa a girare un documentario sulla mia storia. Allora le riprese erano durate molto, questa volta per fortuna si trattava per lo più di girare in pista, più che di parlare”.
Quali sono le differenze tra guidare una moto da motocross e un Kart Cross?
“La moto è molto più fisica, richiede abilità atletiche e forma perfetta. Il kart perdona di più. Ma il feeling è lo stesso, la gestione dell’aderenza a terra sui fondi sconnessi una volta che la impari non la perdi più”.
Lei ha vinto nove titoli mondiali. Quanti anni si concederà ancora per provare ad arrivare a dieci ed eguagliare il record di Stefan Everts?
“Sicuramente il prossimo anno ci sarò. Voglio stare lì davanti, giocarmela fino all’ultimo, poi vedremo. Di sicuro, non correrò se non avrò qualche possibilità di vincere. Dopo tanti anni al top, non avrebbe senso. Quando mi ritirerò, lavorerò con Ktm per tirare su giovani talenti”.
Da tempo lei corre rally in auto, potrebbe essere il suo futuro?
“Mi diverto molto. Non penso ne farò una professione, ma so che mi consentirà di togliermi belle soddisfazioni. Pochi giorni fa mi sono scontrato con i migliori piloti italiani in Toscana, in un rally su terra tecnico e difficile. Sono arrivato nei primi otto”.
Le piacerebbe un giorno correre una Dakar?
“Tantissimo, e lo farei in auto. In moto i lunghi rally sono un altro mestiere rispetto al cross e anche all’enduro. Il road booking e le procedure sono tutte da imparare. Serve umiltà”.
Qual è il segreto di una carriera lunga e vittoriosa come la sua?
“La passione per il mezzo è importantissima. Devi amare la moto, altrimenti non riesci a fare certi sacrifici a livello di allenamento e sopportazione della fatica. Poi devi imparare a non esagerare quando non serve, a preservarti. Non devi cercare di stravincere quando basta vincere. Il rischio di infortunarsi è sempre dietro l'angolo”.
Qual è stata la sua vittoria più bella?
“La prima al campionato del mondo, nel 2004 al primo mondiale. Ero in classe MX2, cilindrata 250. Ho vinto nel sud del Belgio. Ero il nuovo arrivato, non ci sperava nessuno, è stata una meraviglia”.
E il più grande rimpianto?
“Non ne ho tanti. Ho sempre fatto quel che volevo e sono stato competitivo sempre. Potevo evitare qualche infortunio di troppo, certo. Ma anche da quel punto di vista sono stato fortunato”.
Riguardando al passato, chi è stato o chi è il suo più grande rivale?
“Ne ho avuti tantissimi, di epoche e scuole differenti. Potrei citarne molti e quindi non ne cito nessuno. Quando ero ragazzino, guardavo i piloti più maturi e cercavo di imparare. Oggi mi stupiscono i giovani, pieni di forza ed energia”.
È vero che nel motorsport il compagno di squadra è sempre il primo avversario?
“Certo, è così e lo sarà sempre. Col compagno ti confronti a parità di mezzo e di condizioni, è gara vera. Oggi in Ktm ci sono Herlings e Prado, fortissimi. Ma la competizione non impedisce di diventare amici. I miei due testimoni di nozze sono stati entrambi miei compagni di squadra. Sono diventati fratelli per me”.
Suo padre le costruì una pista da cross in giardino. Sua madre la invitò a non mollare, quando da ragazzino era pronto a lasciare le corse. Quanto deve loro per la sua carriera?
“Tantissimo. Hanno sacrificato tanto per mandarmi in giro. Soldi ce n’erano pochi. Papà era camionista nel movimento terra, nella Sicilia di trent’anni fa. E doveva mantenere anche le mie sorelle. Eppure non mi hanno mai fatto mancare nulla. Non certo il sostegno e l’appoggio”.
Conserva ancora la sua prima leggendaria Italjet 50 Cross, il cui numero di telaio finiva con 222, suo attuale numero di gara?
“Certo, ogni tanto la metto in moto e la lascio girare per godermi il rumore. A Natale scorso la ho messa in moto, ogni volta è un’emozione. Me la regalò papà quando avevo quattro anni. Finita la benzina, la rubavo col tubo alle auto parcheggiate. Senza saperlo, i proprietari di quelle macchine hanno aiutato la mia passione”.
Le piacerebbe che suo figlio Chase seguisse le sue orme, o da padre sarebbe preoccupato a vederlo correre?
“Si chiama Chase Ben. Chase perché piaceva a me e a mia moglie, che da sempre viviamo in giro per il mondo seguendo le corse. Ben per mio padre Benedetto, mancato nel 2014, tre anni dopo mia madre. In ogni caso, mio figlio non voglio spingerlo a far nulla. Il motocross è uno sport durissimo, massacrante. Devi esserci tagliato. Non è un’attività che possa essere fatta per divertimento”.
Dal 2004 lei vive a Santa Marinella, vicino a Roma, dove ha sede il suo team. Sarà casa sua per sempre o le piacerebbe tornare in Sicilia?
“Non lo so, ma qui mi piace molto. Vivere in Sicilia è difficile per ragioni logistiche, è un po’ fuori da tutto. Da quando sono ragazzino viaggio per il mondiale, ho bisogno di sapere di essere vicino a un aeroporto, e dalla mia attuale casa dista 20 minuti. Poi ormai qui mi sento a casa. Ho l’accento romano, e mia moglie che è olandese lo ha ancor più di me”.
Davvero la conquistò scrivendole su Microsoft Messenger “I wanna start a story with you”?
“Verissimo. La vedevo nel paddock, seguiva le corse col padre e il fratello. Era bellissima. Chiedevo a un amico fotografo di rubarle qualche scatto di nascosto. Un giorno mi decisi e con un programma di traduzione trovato su Internet le scrissi quella frase: vorrei cominciare una storia con te. Funzionò. Al tempo non sapevo l’inglese”.
Lei è amico di Rocco Siffredi. Come se la cava in moto?
“Davvero niente male. Lui e i figli sono appassionatissimi. Sono anche andato a trovarli in Ungheria, dove ha costruito una pista vicino a casa. Giravamo insieme anche a Roma, quando stava qui”.
Chi è stato il suo idolo nello sport?
“Non ne ho mai avuti, a dire il vero. Da piccolo mi piaceva molto Jeremy McGrath, nel supercross statunitense. Ma non sono molto portato a copiare. Ho sempre cercato un mio stile.
Chi è il nuovo Tony Cairoli?
“Non saprei. Oggi con i social network i ragazzini possono vedere gli allenamenti dei campioni in video, e gli stili di guida tendono a somigliarsi. E le moto si sono molto evolute nelle sospensioni. È più difficile vedere il talento. Abbiamo due tre pilotini molto interessanti: Guadagnini, Forato e Facchetti. Ma auguro loro di vincere essendo se stessi, non i nuovi Cairoli”.Original Article
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