Sulla strada che da Lucca (dove è nata) porta a Camaiore. In aperta campagna, "tra i daini, i cinghiali che sono diventati una maledizione. E, adesso, anche un lupo, avvistato sulla soglia di casa". Qui vive la più importante traduttrice letteraria italiana dallo spagnolo, Ilide Carmignani, la voce italiana di autori come Roberto Bolaño e Luis Sepúlveda (e poi Borges, Cortázar, Fuentes…). E in questo isolamento ha lavorato all'ennesimo capolavoro di Bolaño, "L'università sconosciuta" (Sur), che Carmignani presenta in streaming sul canale Youtube del Pisa Book Festival, oggi alle 17.
Il libro è la summa del Bolaño poeta. Che non si separa né dalla sperimentazione linguistica né dalla varietà di contenuti della produzione narrativa. Quale difficoltà in più offre a chi traduce?
"L'oscurità. Bolano iniziò la sua attività letteraria proprio con la poesia e non mancò mai di confessare l'ammirazione per quel giovane a cui non importava d'essere capito, perché scriveva prima di tutto per sé. Le sue poesie sono in versi sciolti, in apparenza un vantaggio perché impongono meno paletti. Ma c'è un ritmo da restituire, e soprattutto ci sono parole che in spagnolo hanno più significati, ed è difficile azzeccare quello giusto, se il contesto in cui sono inserite non aiuta. Si tratta quindi di approfondire, di ricostruire.
Tenendo conto dei debiti verso l'antipoesia di Nicanor Parra, verso la colloquialità dei beat, ma anche verso un surrealismo allucinato e enigmatico".
In uno scrittore, la vita si lega in modo stretto alla letteratura, diceva Bolaño. Un pensiero che lo accomuna a Sepúlveda.
"Eppure i due autori sono percepiti come lontanissimi. L'università sconosciuta per Bolano è proprio la vita, continuo apprendistato. "La nostra etica è la rivoluzione, la nostra estetica la vita: una-sola-cosa", scrive nel manifesto infrarealista. Sepúlveda non la pensava diversamente. Cileni, non coetanei per poco, ambedue vissero l'esilio, spalleggiarono Allende. E testimoniarono il sacrificio della generazione del Sessantotto sull'altare dei golpe. Certo, poi ognuno ha inteso la letteratura a modo suo. Sepúlveda voce dei senza voce. Bolaño autore più radicale. Ma una consonanza c'è".
Lei definisce i traduttori "autori invisibili", titolo della sezione da lei curata al Salone del libro di Torino.
"Una definizione che non li autorizza alla riscrittura di romanzi altrui. Anzi, il buon traduttore vuole rimanere esteticamente invisibile; il problema è quando l'invisibilità trabocca dalla pagina alla vita professionale, incrostandosi nell'assenza di considerazione. O nella tendenza a fare della traduzione un mestiere femminile perché è più facile pagare male le donne, e l'assenza di alternative ci costringe ad accettare condizioni umilianti. L'autorialità è in scelte pari a quelle dello scrittore; nell'interpretazione delle parole che hanno significati differenti nella lingua d'origine e in quella di destinazione: il traduttore si affida alla sua sensibilità per coglierne la simbologia e il significato profondo".
Quali scelte impongono Bolaño e Sepúlveda?
"Ambedue utilizzano registri colloquiali. Bolaño spesso, Sepúlveda sempre. Solo che in spagnolo sono materiali ricchissimi, non come in italiano. Citando Hemingway, Sepúlveda diceva che per uno scrittore è meritorio scrivere storie con parole non da 5 dollari, ma da 5 centesimi. Le più difficili da restituire nella nostra lingua".
Che significa essere l'alter ego italiano di uno scrittore?
"Lavorare più a tuo agio, visto quanto conosci il suo mondo. Tradurre Sepúlveda fin dall'esordio ha significato crescere con lui: mi chiamava "compañera de camino". I suoi libri uscivano prima in italiano, e questo ci portava ad una stretta collaborazione che mi ha permesso di essere coerente con il pensiero originario. Dopo ore, giorni, anni immersa nella scrittura di uno specifico autore, finisci per immedesimarti. E il fidanzamento letterario combinato dalla casa editrice, diventa intesa profonda".
Nel 2017 ha ritradotto Cent'anni di solitudine di Garcia Marquez?
"Un lavoro da batticuore, perché insieme al Don Chisciotte è l'opera in lingua spagnola più importante. Fu un culto del Sessantotto e l'unica traduzione italiana, quella di Enrico Cicogna, fu influenzata dal clima culturale di 50 anni fa, quando l'America Latina era insieme icona esotica e politica. Nelle sue mani, il realismo magico diventò troppo magico e poco realistico. Io invece ho riportato il romanzo all'origine. Non l'ho svecchiato, come hanno detto in tanti. Era stato Cicogna ad averlo invecchiato".
Calvino sosteneva che da un suo traduttore, uno scrittore può imparare molto.
"Le domande di noi traduttori spesso rivelano aspetti che l'autore dà per scontati nella sua lingua, ma che in altre possono trasformarsi in un ostacolo. Un esempio: anni fa coordinavo un laboratorio al Centro britannico di traduzione letteraria, e affrontando lo stesso testo con altri colleghi di lingue differenti, ci incagliammo tutti nello stesso nodo.
Una cosa difficile da tradurre sono le imprecazioni. Trovandomi davanti ad una molto gergale utilizzata da Sepúlveda, intraducibile in italiano, decisi di restituirla con il nostro "porca miseria". Che poi lui ha utilizzato, in italiano, in un romanzo successivo. Un attestato di stima".
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